Rembrandt, uno di noi

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Forse è il più grande. Certo, è quello che più ci conosce, noi uomini che percorriamo la vita: tra successi e miserie, illusioni e delusioni, amori e lutti. Sempre però egli la guarda in faccia, osservando come essa si svolge, trasforma il corpo e i pensieri: rivedendo gli stessi sentimenti con rinnovata densità nel passare del tempo. E osserva la storia, la nostra e quella dei nostri simili, con un oc- chio di infinita compartecipazione a qualsiasi vicenda. Dell’uomo, della natura, del sacro e del profano. Del quotidiano, e dell’evento. Perciò, con una simile forza di osservazione, può narrare, trasferire su una tela, un foglio, una lastra, il variegato poema della vita. Ma avendola provata tutta – senza sconti – su di sé. Ecco, questo è Rembrandt, in questo sta la sua grandezza. Lui è unico, direi. Rembrandt non guarda un ideale di uomo, non colloca nessuno sopra un piedistallo. I ritratti, per cui divenne al suo tempo tanto ricercato, qualsiasi cosa ne pensassero gli effigiati, li trasportano decisamente – grazie alla campitura fluente del colore e alla sapienza luministica – in una dimensione veritiera: orizzontale, di tranquilla e bella normalità. Egli infatti la prova su di sé, la scorge nei suoi affetti, nei suoi sentimenti. Guarda con tenerezza una Sacra Famiglia in un interno di ombre calde – che è poi la sua casa, la sua famiglia -, osserva l’unico figlio maschio Titus crescere nei giorni e negli anni, ammira il corpo e lo spirito di Saskia, la moglie e modella, con cui si ritrae gioiosamente scanzonato. Indaga il quartiere ebraico dove vive, i cui personaggi diventano gli attori delle sue storie bibliche, così impregnate di Scrittura, talmente evocative di una superiore dimensione, quale nessun altro pittore dell’età barocca ha saputo immettere. Medita sulla storia, del passato e del presente, la ricca borghesia di Amsterdam che nel secolo d’oro sfoggia sicurezza e lo protegge: il gruppo dei Sindaci dei drappieri, dove l’animazione dei sentimenti è bloccata per un attimo sulla tela nelle sfumature indagatrici degli sguardi e dei gesti, la Ronda di notte del drappello del capitano Cocq con la sua eccitazione psicologica, che trasforma una guardia civica in una armata fiera della propria libertà. Guarda a sé stesso, Rembrandt. Dai 22 ai 63 anni, quando muore, si ritrae almeno un’ottantina di volte: è il suo crescere, maturare, decrescere, implacabilmente descritti nella loro bellezza sublime – la bellezza di un volto che riflette su di sé tutto ciò che può succedere in una vita.Ma sono i volti di ciascuno di noi, quando abbiamo il coraggio della verità, di vederci dipanare, corpo e anima, verso la semplicità estrema. Pennellate sfatte su tempie ingrigite, sfolgoranti nell’ombra così come lo erano da giovane, accarezzate dalla luce. La luce. Come è diversa da quella di un Caravaggio, da cui pure impara. Al Merisi essa serve a tagliare l’ombra quasi con crudeltà. La vita è sempre dramma, e con gli anni egli sembra avanzare più verso il buio indistinto che verso un chiarore. La sua diventa un’energia che esaspera le emozioni. Rembrandt non fa violenza alla luce. La esalta, la toglie dall’ombra come il segreto delle cose, la fa rifulgere con forza sui volti, i corpi, i tessuti, gravida di calore. Una luce che contiene in sé un senso di resurrezione vitale, mai di morte. Penso alla Sposa ebrea, la tela dove un marito accarezza il seno della moglie, con un intreccio di delicatezze reciproche che dice dell’amore fra due persone più delle infinite parole sparse nei secoli. Ed è questo intreccio che suscita l’esaltazione dei gialli e dei rossi, stesi con una materia pittorica densissima – la diranno impressionista! – che risulta un inno alla gioia. Ripenso al Pianto di Geremia su Gerusalemme: il lume solca l’azzurro angosciato degli occhi e le rughe sulla fronte: si sente il pianto, su quello sfondo lontano grumoso e indistinto. Rivedo il figlio Titus, bambino che scrive sul quaderno, gli occhi vivi sul volto emaciato – morrà prima del padre -: la fragilità dell’infanzia, il bisogno di affetto indagato da quelle tinte così pastose e liquide come parole. Non c’è aspetto della vita che sia sfuggito a Rembrandt. Davanti alla quale egli si sente libero di interpretare, e raccontare, esplorando sentimenti nuovi e tecniche nuove. Con una tavolozza via via più sciolta, essenziale. Mi soffermo davanti alle sue ultime tele: la luce è una fiamma concentrata, i con- torni si son fatti indistinti, lo sfondo tende al neutro. Nella Congiura dei Batavi il lume sfavilla sul tavolo, traccia le forme, riprecipita nell’ombra. Più che ai corpi, dà vita alle anime. Non sarà allora, questa luce particolare, un ritratto dell’anima? Conoscendo Rembrandt che ci accompagna nel cammino quotidiano del vivere, forse non siamo lontani dal vero. Lui è arrivato, alla fine, come è dei geni, a farci vedere, come è l’anima. Forse è il suo dono più grande. GIACOBBE IN LOTTA CON L’ANGELO Rembrandt pittore del sacro. Una continuità durata tutta la vita, risultati sorprendenti. Caravaggio racconta il sacro nel quotidiano, come Rembrandt, che però lo guarda e lo attira – il quotidiano – da una dimensione spiritualmente più ampia. Più meditativa. Un esempio: la tela del museo di Berlino, dipinta intorno al 1660. Una sottilissima analisi psicologica di un fatto di fede: l’animo umano nel rapporto col divino. L’angelo gigantesco, di fattezza classica, sta sopra il pur forte Giacobbe, il quale è ormai alla fine della lotta e si abbandona con gli occhi chiusi sul petto del Vincitore. L’angelo, con un mano ferisce il patriarca al fianco, con l’altra lo prende morbidamente in un abbraccio. Il gioco delle due mani, una a toni caldi l’altra più energica spiega, per Rembrandt, come l’uomo deve lottare con Dio che lo vince, gli lascia un segno della sua vittoria, ma, dopo questa lotta, lo abbraccia e lo fa suo, gli dà un compito. Nella musicalità bassa delle ombre, nella luce che scalda il petto dell’Angelo – lume divino – e scivola sul tergo di Giacobbe la tela diventa epos e commento teologico insieme, espresso con un sintesi chiaroscurale brumosa di intesa suggestione. Davanti a tele come queste si può contemplare e riflettere anche oggi, come accadeva ai contemporanei del pittore.

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