Rapporti internazionali da rifondare

Il terrorismo è ormai globale, per cui dividersi è stupido. Per batterlo serve invece un'Europa che sappia condividere informazioni e coordinare azioni preventive. Non siamo di fronte ad uno scontro tra civiltà, ma alla necessità di isolare l'inciviltà dell'Isis. Serve coraggio e strategia per vincere la pace
Belgio

Dopo aver descritto i primi 3 rischi per L’Europa di fronte al terrorismo, continuiamo con la seconda parte dell’articolo.

 

Il quarto rischio è che la minaccia terroristica dell’ISIS contribuisca a demolire quanto è ancora rimasto in piedi dell’integrazione europea – dopo la sospensione di Schengen, il ripiegamento sulla sicurezza nazionale, l’inquietante risposta all’emergenza dei rifugiati –, con l’idea che le nostre piccole patrie possano realmente costituire il nostro orizzonte di salvezza. Tutto ciò è paradossale: il terrorismo è transnazionale per definizione, tutte le più grandi sfide che dobbiamo fronteggiare sono globali, e dunque ci sarebbe bisogno di una dimensione realmente europea, in termini di intelligence, di condivisione di informazioni, di coordinamento di azioni preventive.

 

Invece di rafforzarci, rischiamo così di indebolirci, e di aumentare in modo esponenziale la nostra vulnerabilità. La domanda seria che dovremmo porci non è se crediamo o meno all’Europa quasi fosse un articolo di fede, ma se senza l’Europa possiamo davvero pensare di avere una qualche incidenza, anche in termini di garantire la nostra sicurezza, in un mondo globalizzato e trans-nazionalizzato.

 

Il quinto rischio è che la contrapposizione tra mondo euro-atlantico e mondo arabo, che è uno degli intenti fondamentali dell’ISIS, diventi, almeno nella facile retorica politica, una realtà irreversibile, con l’aggravante di una dimensione religiosa (Cristianesismo contro Islam). È cruciale che tutte le istanze e le voci capaci di smontare questo assioma falso e rozzo abbiano spazio e risonanza. C’è una sorta di scisma non dichiarato nell’Islam sunnita, che è quello del sedicente stato pseudo-islamico e di tutti i terrorismi ad esso affini, e che va ben oltre le stesse correnti salafite e wahabbite, che sempre più tendono a distinguersi rispetto al terrore nichilista dell’ISIS e di Al Qaeda, come pure di Boko Haram.

 

I Cristiani sono perseguitati in Siria e Iraq, ma lo sono pure gli sciiti, gli yazidi, le correnti che si rifanno alla tradizione sufita, i sunniti che rifiutano una versione degenerata della Jihad e l’arruolamento forzato sotto il Califfato. Qui non si tratta di scontro di civiltà, ma di isolare e arginare l’inciviltà dello scontro.

 

Il sesto rischio, che molti commentatori “muscolari” sembrano non considerare, è quello di una militarizzazione delle politiche estere dei Paesi europei, quasi che il “male” dell’estremismo violento e possa essere estirpato dal Medio Oriente e dal Nordafrica mettendo, come si dice, gli “stivali sul terreno”, cioè con interventi diretti nei conflitti. Non ci ha risparmiato questo consiglio neanche Tony Blair, che appena pochi giorni fa si era “scusato” per l’intervento in Iraq, fonte di quasi tutti i nostri problemi attuali. Più accorto Obama, che ha definito un “errore” l’intervento in Libia nel 2011, condendo però l’affermazione con una certa dose di veleno nei confronti degli “alleati (europei) scrocconi”, che contato cioè sempre sugli Stati Uniti quando si tratta di agire militarmente.

 

In Libia, come in Siria ed in Iraq, si tratta di far qualcosa di assai più incisivo e radicale rispetto ai bombardamenti o alle invasioni, e cioè mettere in atto una strategia che isoli il terrorismo, che punti a sostenere davvero quanti intendono ricostruire il patto fondativo nazionale, senza il quale si rischia di appoggiare una fazione contro l’altra, con effetti dirompenti. È quello che hanno fatto in Siria, dal 2011, le Monarchie del Golfo, l’Iran, la Turchia, la Russia, ma anche l’Europa e gli Stati Uniti, in ordine sparso, con una confusione ed improvvisazione tale da avvalorare la convinzione che se tutti se ne fossero astenuti oggi la situazione non sarebbe forse peggiore di quella che ci ritroviamo dinanzi. È quello che hanno fatto gli Europei bombardando il regime di Gheddafi nel 2011 senza avere la più pallida idea di cosa fare immediatamente dopo.

 

Insomma, il momento è drammatico e non possiamo scherzare con le parole, con le narrazioni, con la storia. Un aforisma riferito alla politica italiana di qualche anno fa diceva che “la situazione è drammatica, ma non seria”. Facciamo in modo che la politica europea sia, invece, seria, e ricordiamoci che nel 2012 l’Unione Europea ha ricevuto il Premio Nobel per la pace. Meritiamocelo in questa ora tragica, ricordando al mondo che l’integrazione è non solo una grande invenzione europea, ma anche la prefigurazione di rapporti internazionali da rifondare. Abbiamo avuto la dimostrazione, dopo i suicidi delle due guerre mondiali del XX secolo, che accontentarci di una precaria “pace fredda” o di una “pace a bassa intensità” in Europa, come altrove, non serve a prevenire i conflitti, e che la pace richiede il massimo di impegno e di rischio. Ci vuole molto più coraggio e molta più strategia a vincere la pace di quanto ce ne vogliano in qualunque guerra.   

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