Quattro voci per mille Brasili

Tre sorelle e una nipote. Sono originarie di Minas Gerais, ma da tempo vivono e lavorano a San Paolo, la più industriale e moderna delle metropoli brasiliane. Qui da noi sono ancora in pochi a conoscerle, non perché non lo meritino, ma perché i loro dischi sono pubblicati da una piccola etichetta discografica (le Edizioni Paoline locali) che certo non può permettersi gli sforzi promozionali di una major. Il Brasile, si sa, ha un’anima multietnica come nessun altro paese al mondo. Anzi, potremmo dire che questa terra meravigliosa e contraddittoria è di per sé il frutto di un incrocio di culture e di razze: quella primigenia degli indios, quelle di origine europea importate nei secoli scorsi dai coloni bianchi, e quelle africane importate dagli schiavi nei secoli scorsi. Le infinite combinazioni razziali che ne sono derivate è uno dei segreti di questo popolo e dei suoi tesori, artistici e non. E questo perché tale melting- pot plurisecolare ha saputo evolversi – qui molto più che altrove – senza generare conflitti, ma piuttosto un’armonia d’intrecci capace di trascendere anche i drammi e gli squilibri che tuttora segnano le realtà sociali che compongono i mille tasselli sociali di questo immenso paese. Dico questo perché tutto ciò è la linfa, lo sfondo e il presupposto fondamentale dello stile di queste ragazze. Nelle deliziose canzoni delle A Quatro Vozes c’è il Brasile dei grandi cantautori (da Chico Buarque a Jobin, da Milton Nascimento e Gilberto Gil e tanti altri), c’è la raffinatezza modernista dei Tribalistas e gli aroma antichi delle grandi voci del bossanova e dal samba come Elis Regina o Astrud Gilberto, e ci sono i colori folklorici assimilati dalle tre sorelle Otaviano nella loro adolescenza, quando si divertivano a cantare con la loro numerosa famiglia (oltre a papà e mamma, sette fra sorelle e fratelli) o si esibivano alle feste di paese, laiche o religiose che fos- sero. La musica è sempre stata di casa nella famiglia Otaviano, ed è proprio lì che hanno cominciato ad affinare la loro tecnica e il loro stile, fino a che, verso la fine del decennio scorso, la carriera di Dora, Jussara e Jurema e della nipote Tathiana, s’è avviata su binari definitivamente professionali in quel di San Paolo. E coi primi concerti, il quartetto avviò anche collaborazioni con personaggi di spicco della scena contemporanea come il gruppo Olodum e Virginia Rodriguez. Il debutto discografico arriverà nel 2000 con l’album Felicidade Guerreira, cui farà seguito il recente O canto de Minas. Canzoni semplici, ma che profumano di sentimenti autentici e trasudano valori importanti: l’amore, l’amicizia, la fede, la fratellanza fra i popoli. Quel che le rende capaci di evadere dai ghetti della cosiddetta christian music è l’universalità del messaggio, la carica emozionale che sanno trasmettere, e una cura del dettaglio formale piuttosto rara in certi ambiti. Insomma le A Quatro Vozes non hanno nulla da invidiare a gruppi vocali ben più blasonati: grinta e dolcezza, ritmo e melodia miscelati con gusto e capaci d’intrigare il pubblico di qualunque latitudine. Il loro lavoro più recente è un bel biglietto da visita: chi fosse interessato, può cercarlo tramite internet, sul sito www.paulus.com.br. o direttamente sul loro sito personale: www.aquatrovozes. com. Sarà una bella sorpresa per molti. Franz Coriasco Città nuova – N.8 – 2005 73 M U S I C A C L A S S I C A Oedipus Rex, operaoratorio da Sofocle, testi di J.Cocteau. L’uccello di fuoco, racconto coreografico di Michel Fokine. Teatro dell’Opera. Ci vuole un grande direttore per mettere a fuoco due lavori che sembrano di due diversi autori. Perché l’Oedipus (1928), scandito su versi latini intercalati da un narratore (un grande Omero Antonutti) nei suoi temi modali trasporta nell’eternità del mito- metafora. Di qui un declamato insistente – con variazioni che sintetizzano la storia dell’opera, da Scarlatti a Verdi – sull’omofonia del coro e sull’orchestra, che presta i suoi colori ora squillanti ora grigi. Mentre L’uccello (1910) esplode in sonorità sgargianti, sensuali, evocatrici di una fiaba dove l’amore vince la violenza e l’ingiustizia, sotto un cielo esotico che esige ritmi barbarici. Un direttore geniale, si diceva. Zoltan Pes?ko, bacchetta fra le più prestigiose, è l’interprete adatto a lavori che esigono un totale cambio di atmosfere, e quindi di timbri e colori, l’uno dall’altro. Il gesto aperto, fluente suscita la partecipazione reale dell’orchestra, che nel balletto si scatena in morbidezze (il primo clarinetto, l’oboe) e in scosse violente, mentre riveste l’oratorio di un tappeto sonoro grumoso (gli archi gravi). Pes?ko trascina, commuove, con precisione e densa musicalità. Nell’Oedipus l’allestimento ripropone le scene e i costumi di Manzù, grigi e bianchi contro un sole affogato, di suggestiva bellezza, mentre le voci di John Uhlenhopp (Edipo) e Marta Moretto (Giocasta) vibrano di spessore drammatico, in una regia di giusta meditativa lentezza. Nell’Uccello, le scene,

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