Quale sovranità per l’Italia?

Crisi di fiducia, potere dei mercati e ruolo della Germania. Intervista all’economista Giovanni Ferri sui margini di scelta politica del nostro Paese  
Proteste alla Borsa di Londra EPA/KERIM OKTEN

Nonostante la polemica sia poi rientrata, con il varo del nuovo governo guidato dal giurista Giuseppe Conte, il conflitto emerso intorno alla paventata nomina di Paolo Savona come ministro dell’economia, poi dirottato ad altro dicastero, ha fatto emergere, visto curriculum ed esperienza del personaggio, un pezzo sommerso della nostra storia e cioè il conflitto di pareri sulla modalità della nostra adesione all’Unione europea con il trattato di Maastricht. È stata una scelta lungimirante e necessaria? Oppure, come affermano alcuni studiosi, è incompatibile con la Costituzione e abbiamo abdicato ad ogni possibilità di autonoma politica economica sacrificando occupazione e crescita?

Questioni che meritano un adeguato approfondimento con diversi interlocutori. Cominciamo con Giovanni Ferri, professore ordinario di Economia politica e relazioni internazionali presso l’università Lumsa di Roma.

La decisione di adottare l’euro come moneta comune è stata festeggiata come una grande conquista, ma, a conti fatti, possiamo dire che c’è stato un effettivo consenso su tale scelta?

Bisogna ricordare che il progetto di unificare l’Europa nasce nel dopoguerra e gli esponenti italiani hanno un ruolo cruciale: non a caso quella che è ritenuta la nascita dell’Unione europea si rifà al Trattato di Roma, firmato in Campidoglio nel 1957. L’Italia è sempre stato uno dei Paesi più convinti, a livello di governi e di popolo, a procedere verso l’Unione. Questo era vero anche all’inizio degli anni ’90 quando si definì il Trattato di Maastricht e il percorso verso la moneta comune. Il disinnamoramento dell’Italia verso l’Ue è fenomeno recente, che emerge con la quasi-crisi del debito pubblico italiano nel 2011 e la successiva crisi sociale nell’ambito delle politiche di austerità che limitavano la spesa pubblica. Perciò, se ci rimettiamo nel contesto dei primi anni ’90, l’adesione all’euro era fortemente voluta dagli italiani e le voci dissenzienti erano poche e isolate.

Ma è stata una scelta lungimirante o abbiamo abdicato a politiche economiche autonome?

Prima di ogni cosa toglierei dal tavolo ogni problema di costituzionalità, che non mi risultano. Il problema è essenzialmente economico. Tutti gli esperti sapevano che la moneta unica avrebbe comportato problemi di gestione macroeconomica quando si fosse avuta una crisi. Tecnicamente si dice che l’area economica dell’euro (Francia, Germania, Italia e altri Paesi unitisi all’inizio o dopo) era un’area valutaria “non ottimale”. Cioè la gestione macroeconomica sarebbe stata migliore se i singoli Paesi avessero mantenuto le loro valute nazionali. E, puntualmente, quando è scoppiata la crisi finanziaria globale (2008-09) qualcosa ha cominciato a scricchiolare nell’area dell’euro. I Paesi “periferici” (Grecia, Italia, Portogallo e Spagna) hanno subito una crisi più profonda. Ha iniziato a palesarsi sfiducia che questi Paesi potessero restare nell’euro. Così i tassi di interesse sul debito pubblico di questi stati sono saliti generando il noto fenomeno dello “spread”. L’Italia, che all’inizio ne era rimasta fuori, è finita nel gorgo per il suo elevato debito pubblico. Ma la scommessa sottostante che era stata fatta dai Paesi europei era che l’area valutaria, sebbene inizialmente “non ottimale”, negli anni sarebbe diventata “ottimale” grazie a una convergenza tra le varie economie nazionali. Inoltre, molti pensavano che all’unificazione economica si sarebbe accompagnata l’unificazione politica. Ma così non è stato: anziché convergenza si è avuta divergenza tra le varie economie nazionali e l’unione politica non è andata avanti. Quindi, nonostante qualche progresso ci sia stato (es. il Quantitative easing della Banca centrale europea a guida Draghi ha mitigato lo spread), l’area euro resta “non ottimale”. In qualche modo, eventi negativi esterni (la crisi finanziaria globale) hanno colto l’area euro a metà del guado: o si va avanti o si torna indietro, non si può restare in mezzo al fiume.

Quanto è in pericolo l’Unione europea?

A indurre incertezze sul futuro dell’Europa concorrono fattori esterni e interni, talora combinandosi in spirali negative. Tra i fattori esterni si contano il cambiamento nel ruolo mondiale degli Stati Uniti; la politica di potenza della Cina; il crescente interventismo della Russia; la prorompente dinamica demografica in Africa. Nel complesso questi cambiamenti esterni complicano le prospettive dell’Europa. Tra i fattori interni menzionerei il riemergere di fratture tra Paesi europei, accompagnate da inquietudini nazionali; l’incompletezza dell’Unione economica europea messa in tensione da vari fattori di crisi; l’inadeguatezza delle politiche sociali nell’Ue; l’assenza di una vera Unione politica; la deficienza di una politica estera e di difesa comuni. Nel loro insieme, le fragilità interne indeboliscono la fiducia nell’Ue e tra europei. Una cosa importante da sottolineare è che, con ogni probabilità, se un Paese A esce dall’euro sarà costretto a uscire anche dall’Ue. Infatti, l’uscita dall’euro determina una svalutazione del cambio del paese A. Siccome le merci di A divengono molto più competitive, gli altri Paesi saranno costretti a elevare barriere commerciali nei confronti di A. Così, di fatto, A esce non solo dall’euro ma anche dall’Ue.

Con quali conseguenze?

Il disfacimento dell’Ue sarebbe un grave danno per tutti gli europei. Avremmo vari staterelli che non potrebbero certo confrontarsi con i nuovi/vecchi giganti, Cina e India, che da soli contano 2,6 miliardi di individui. Ciò vale per l’intera Europa che, a seconda delle definizioni, oscilla tra 300 e 400 milioni di abitanti. Tornando ai singoli Paesi il confronto sarebbe davvero impari. Ad esempio, nel confronto con la Cina, i 60 milioni di italiani sarebbero di meno di ciascuna delle 8 province cinesi più popolose (Guandong 110 milioni, Shandong 100, Henan 95, Sichuan 83, Jiangsu 80, Hebei 75, Hunan 68 e Anhui 62).

Perché si afferma che la Germania impone direttive che favoriscono solo i suoi interessi?

Credo che, oggettivamente, l’economia tedesca sia quella che ha guadagnato di più dai 20 anni di euro. Però, quei guadagni l’economia tedesca se li è conquistati non tanto distorcendo le direttive a suo favore (ci saranno anche casi del genere ma non è questo il punto) quanto investendo in innovazioni tecnologiche, organizzative e sociali. Faccio solo un esempio, la Germania ha riformato il mercato del lavoro (riforma Hartz del 2003) molto prima degli altri (il Jobs Act italiano si muove nello stesso spirito, ma nel 2015; la Francia è ancora in mezzo al guado). Siccome nel contesto globalizzato non si poteva fare a meno di una riforma del lavoro di quel tipo, averla fatta molto prima degli altri ha dato alle imprese tedesche vantaggi in termini di contenimento dei salari, vantaggi che sono stati in gran parte reinvestiti in azienda riportando la Germania sulla frontiera tecnologica più avanzata. Avendo riacquisito competitività, le imprese tedesche hanno poi potuto tornare ad assumere e a concedere aumenti dei salari. Insomma, si è instaurato un circolo virtuoso. Da noi ciò è successo molto più tardi e non mi pare che le imprese italiane ne abbiano approfittato in modo adeguato per investire in massa nelle nuove tecnologie.

A prescindere dal colore, qualsiasi governo, di fatto, può solo esibire un dissenso di facciata oppure ha margini reali per ridiscutere regole già fissate a livello europeo? Quali e in che modo?

Rispondo in due punti. Primo, per tentare di modificare i Trattati europei, molto faticosamente costruiti in tanti anni, bisogna essere credibili. Occorre avere le carte in regola, serve tempo per costruire maggioranze (che al momento non esistono) con altri Paesi membri dell’euro. È un compito ciclopico che richiede grande impegno e tempi lunghi. Se, invece, ci si presenta al tavolo europeo senza aver fatto prima questo lavoro, il risultato sarà solo controproducente: irrigidire gli altri membri e, quindi, non ottenere niente peggiorando per di più i rapporti con gli altri Paesi. Secondo, penso che, costruendo il consenso appena richiamato, si potrebbe provare a rafforzare la politica sociale europea. Vi è crescente consapevolezza che la mancanza di una effettiva politica sociale europea ha minato il senso di cittadinanza, contribuendo a disamorare i popoli verso Bruxelles. Margini di intervento potrebbero esserci. Speriamo che il ministro degli Esteri, Moavero, che ne ha le capacità, possa lavorare bene in tal senso.

Quando si dice “governano i mercati” cosa si intende? Può davvero l’azione comune di alcuni fondi speculativi gettare un Paese sul panico? Quali sono? E chi li controlla?

I fondi speculativi esistono, ad esempio i cosiddetti “hedge funds”. Il loro unico obiettivo è quello di fare profitti. Quindi se speculano contro l’Italia, contro il nostro debito pubblico e le nostre banche, lo fanno solo se hanno la ragionevole aspettativa di vincere una scommessa lecita. Ma non è utile pensare solo agli speculatori professionali, perché lo stesso ragionamento lo farà qualsiasi persona ordinaria: se percepisce che c’è un rischio concreto che i Btp (Buono del tesoro poliennale) non saranno ripagati quale persona di buon senso vorrà continuare a investirvi? La cosa più saggia che può fare il nostro governo è di rassicurare tutti quanti che il debito pubblico italiano sarà ripagato fino all’ultimo euro e le nostre banche, se servirà, saranno sostenute. Da questo punto di vista, l’attuale maggioranza è già incorsa in un grave infortunio scrivendo nella bozza del programma (contratto) di governo, pubblicata da Huffington Post il 16 maggio scorso, che voleva evitare di ripagare 250 miliardi di titoli pubblici italiani detenuti dalla Banca centrale europea come investimento del Quantitative easing. La forte impennata dello spread italiano è figlia di questo infortunio. Perciò, a maggior ragione, occorre solo cercare di tranquillizzare gli investitori che il nostro debito sarà ripagato per intero.

 

I più letti della settimana

Osare di essere uno

Chiara D’Urbano nella APP di CN

Focolari: resoconto abusi 2023

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons