Prof in una scuola a rischio

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Violenze tra studenti, prof aggrediti, edifici scolastici in degrado, personale deriso… C’era di che arrendersi prima di combattere. La domanda era d’obbligo: valeva la pena di imbarcarsi in un’impresa destinata al fallimento? Questa, almeno, era la percentuale che gli ultimi sondaggi offrivano. Quelle previsioni catastrofiche però non la convincevano. Emmanuelle Wallet, un viso limpido incorniciato da una cascata di capelli biondi, dice che, al contrario, “quelle notizie mi hanno spinta a guardare piuttosto dentro di me. A dispetto di tutto, la risposta è stata: “Insegnare: non l’hai sempre voluto”?”. Ed è questa la ragione per cui, dal settembre 2002, Emmanuelle si è trovata ad insegnare inglese a 150 ragazzi di un liceo di Dunkerque, nel nord della Francia, catapultata a seicento chilometri dalla sua famiglia. “Noi, professori di prima nomina, non abbiamo – dice – alcuna possibilità di scelta. Spesso ci vengono assegnate le cattedre che altri rifiutano: in poche parole, ci sentiamo mandati in prima linea”. Si è trovata a gestire una situazione particolarmente esplosiva. In quella città, la popolazione è caratterizzata da una presenza massiccia di emigrati, soprattutto nordafricani. E nella scuola, ovviamente, i nodi delle situazioni conflittuali non risolte vengono al pettine. La gente le faceva osservare che Grande Synte, il quartiere dove si trovava il suo liceo, era come un campo minato. “Poverina – le dicevano, sinceramente preoccupati nel vederla così giovane e priva di esperienza -, non vorremmo trovarci al suo posto”. Emmanuelle descrive così l’impatto del primo giorno di lezione: “Mi son presentata ai miei studenti con un teggiamento fermo, anche se avevo una grande paura che la situazione mi sfuggisse di mano. L’ho fatto semplicemente, proponendo subito regole semplici e chiare di comportamento, alle quali tutti noi dovevamo attenerci. Mi aspettavo una protesta corale. Invece, forse stupiti che io dessi loro tanta considerazione, mi hanno ascoltata in silenzio”. Tutte quelle belle nozioni che aveva appreso dai testi di pedagogia, ora venivano messe al vaglio dei fatti. “Per prima cosa – prosegue – mi son preoccupata di stabilire un rapporto diretto, personale con ciascuno, anche se poteva sembrare una perdita di tempo. Ho iniziato a prendere confidenza con i loro nomi, le varie Fatima, Fatha, o i Mohamed declinati nelle più svariate lingue. Ho appreso che nomi come Mounir, Passim o Selim erano diminutivi. Che alcuni, come Aicha, Zahra o Safia, Najoua e Bouchra, evocavano un mondo di mistero e di fiaba. Simboli di altre culture, di altri modi di intendere al vita. Già partendo da questi semplici momenti di reciproca conoscenza, le nostre lezioni subivano un processo più dinamico, più partecipato. In effetti, loro che erano già poliglotti, a ben vedere erano più predisposti ad apprendere le regole di una nuova lingua”. Ben presto, la giovane prof si è accorta che dietro quei nomi così esotici si celavano personalità ben definite, che si portavano dentro tutto un bagaglio di esperienze, non solo personali, ma dei popoli da cui provenivano. Era difficile penetrare nel loro vissuto, ma ciò che sembrava un ostacolo insormontabile poteva trasformarsi in una risorsa, in una ricchezza per sé e per gli altri. “Non era facile – prosegue – capire cosa veramente pensassero quelle ragazze riservate, dall’apparenza cosi dolce e tranquilla; o come entrare in rapporto con i ragazzi piuttosto diffidenti nei miei confronti (in fondo non ero che una donna, e per giunta giovane)”. Si trattava di renderli coscienti di tutto ciò e di far sì che ciascuno potesse esprimersi al meglio. Quello che sino ad allora era stato uno scontro di culture, andava invece trasformandosi in un incontro tra persone. “È soprattutto un esercizio di pazienza e di ascolto. Ma ho visto quella carica di aggressività più o meno repressa trasformarsi col tempo in entusiasmo per la scoperta, che ciascuno faceva di sé e degli altri, di persone tanto diverse da come prima si conoscevano”. Si è trovata a rivalutare, e, in un certo senso, a reinventare la sua professione di insegnante “Ne avevo un immagine ben precisa, affascinante ma tradizionale. Pensavo fosse un’occupazione solitaria, poco adatta al lavoro di squadra che sembra oggi essere vincente. Ho accolto quindi come una sfida l’invito dei nostri dirigenti scolastici a tentare nuove vie, e per prima ho preso contatto con gli altri colleghi di lingue. Con alcuni di essi – “emigrati” come me, provenienti dai quattro angoli della Francia – abbiamo iniziato a trovarci ogni mercoledì per programmare insieme le nostre lezioni che, arricchite dal contributo di ciascuno, risultavano più varie, complete ed efficaci”. Poi è arrivato il “momento della verità” dell’incontro con la propria classe: “Per me il grande problema era quale immagine di adulto dare agli studenti quando, come è il mio caso, si è coscienti di non esserlo ancora del tutto. Ho imparato ad essere ferma quando questo atteggiamento mi pare necessario, senza cedere ai ricatti dello studente che cerca di negoziare, di blandire, oppure si oppone o ancora, si ribella. Ho imparato a scherzare con loro, condividendo i momenti di distensione. Ho appreso che, allo stesso tempo, è di importanza capitale saper notare, valorizzare ogni impegno, anche quando i risultati non sono particolarmente brillanti. Mi vado sempre più convincendo che essi hanno un bisogno estremo di vedere un riflesso di ciò che sono e di ciò che valgono nel nostro sguardo di adulti. Certo, non c’è per tutto una soluzione ideale, si va avanti a tentoni “. Ed è questa la ragione per cui, spiega, “al di là di ogni previsione, sono rimasta al mio posto”.

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