Primo Levi: il grande narratore dell’olocausto

Diventò scrittore per la ragione moralmente più alta, testimoniare l’orrore

Primo Levi nacque 100 anni fa, il 31 luglio del 1919. Il nome e l’opera di questo grande scrittore torinese ed ebreo sono ricordati in tutto il mondo da almeno 60 anni. Il suo capolavoro, Se questo è un uomo, apparso nel 1947, è da decenni un best-seller universale, tradotto, letto, studiato e commentato da persone di ogni Paese, età, origine e cultura, pure a scuola e nelle università, dove è oggetto di dibattiti, lezioni, ricerche e tesi di laurea.

Verso la fine degli anni ’50, Italo Calvino aveva giudicato Se questo è un uomo il miglior prodotto della letteratura, europea e non solo, nata dall’atroce esperienza dei campi di sterminio nazisti. La seconda metà del ’900 e i primi due decenni del XXI secolo hanno confermato tale giudizio.

Negli ultimi 20-30 anni le conoscenze sull’Olocausto si sono approfondite, ed è diventata più viva la coscienza di ciò che ha rappresentato quella ventata di barbarie per tutta l’umanità. Ora, in questo risveglio di attenzione e sensibilità verso la tragedia dei lager, il “diario degli orrori” scritto da Primo Levi occupa un posto centrale (pure per i pregi letterari, filosofici e umani dell’opera) tra le raccolte di memorie e testimonianze. Il Giorno della Memoria, il 27 gennaio di ogni anno, non c’è cronista, conferenziere o commentatore tv che riferendo sulla Shoà non citi Se questo è un uomo. Insomma, fra i tanti fiori letterari, poetici e memorialistici sbocciati dal fango di Birkenau e degli altri inferni europei, il capolavoro di Primo Levi è il più bello e profumato.

Primo LeviAd Auschwitz Levi fu internato dal febbraio 1944 al 27 gennaio ’45, quasi un intero anno, che in quei posti era lungo quanto «tutta una vita», come mi ha detto un sopravvissuto di Mauthausen. Prima era stato arrestato dai fascisti come partigiano in Val d’Aosta e rinchiuso in un campo di detenzione italiano (ce n’erano eccome, tipo Risiera di San Sabba!), a Fossoli, nel modenese. Da qui, per volere dei tedeschi, in quanto ebreo aveva disceso molti gradini nella scala della “dannazione” ed era precipitato a Buna-Monowitz, detto Auschwitz III, accanto al lager madre.

Qui avrà la fortuna di sopravvivere, come scrive nel suo libro, grazie al fatto di essere un chimico. Le SS lo assegnarono al laboratorio di una vicina fabbrica di gomma sintetica, dove poté tirare avanti più accettabilmente che altrove. L’altra fortuna, è ancora Levi a dirlo, fu di contrarre la scarlattina quando Auschwitz e gli altri campi furono evacuati dai tedeschi. Questi, scappando all’inizio del ’45, trascinarono con sé i detenuti sani e abbandonarono i malati, che furono ritrovati e soccorsi dai soldati dell’Armata Rossa al loro arrivo.

Questo e molto altro racconta Primo Levi, non solo in Se questo è un uomo, ma in tante altre testimonianze, conferenze, interviste rese negli anni. Le “più veramente opere”, in senso narrativo-memorialistico-saggistico, sono La tregua (1963), un altro capolavoro, dov’è raccontata la lunga odissea dell’autore per tornare a casa dalla Germania, passando per ben 8 Paesi e rivedendo Torino solo a ottobre del ’45 (!); Il sistema periodico (1975), racconti ognuno dei quali è abbinato a un elemento chimico; La chiave a stella (1978), che ha vinto il Premio Strega ed è il suo contributo alla letteratura industriale in voga negli anni ’60 e ’70; I sommersi e i salvati (1986), che torna al tema dei lager e si intitola come l’autore avrebbe voluto intitolare il suo primo libro.

Tirando le somme, chi è stato Primo Levi? È stato un grande, un ebreo piemontese colto, intelligente, modesto, discreto e civile. Amò gli studi (al liceo D’Azeglio a Torino fu alunno di Cesare Pavese, che però, “fissato” com’era allora con i classici, per la Einaudi gli rifiutò Se questo è un uomo) e predilesse la scienza. Lavorò come chimico tutta la vita da ricercatore e dirigente.

Diventò scrittore (il suo secondo lavoro, diceva) per la ragione moralmente più alta: testimoniare l’orrore dei lager, la sofferenza e i tormenti inflitti da uomini ad altri uomini. Tutto ciò non per accusare, condannare e neanche odiare, ma affinché l’incubo non ritorni. Come si sa, morì probabilmente suicida cadendo nella tromba delle scale del palazzo dov’era nato e aveva sempre abitato. Non aveva più retto al “rimorso” (di cui scrive spesso) di essere sopravvissuto ad Auschwitz mentre tanti altri erano morti? Forse. Ma così ci ha dato la sua ultima lezione. Quella di non giudicare e di avere pietà.

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