Premierato, una prima analisi della proposta di legge costituzionale

Il disegno di legge costituzionale presentato dal governo Meloni è una versione soft del presidenzialismo finora proposto da Fratelli D’Italia. Difficile che si arrivi alla sua approvazione in Parlamento con maggioranza qualificata, per cui è prevedibile un nuovo referendum costituzionale. Il vero ostacolo alla stabilità dei governi non sono le regole vigenti, ma la crisi democratica dei partiti.

In queste prime note a margine del disegno di legge di modifica costituzionale varato dal Consiglio dei ministri è possibile solo descriverne a grandi linee i contenuti e immaginare l’impatto politico che avrebbe la sua approvazione; ci sarà poi tempo per ulteriori approfondimenti, man mano che si svolgerà l’iter parlamentare.

Allora, l’obiettivo è chiaro: rafforzare il governo del Paese attraverso l’elezione diretta del presidente del Consiglio dei ministri, che sarebbe votato contestualmente alle Camere, con un’unica scheda elettorale.

Il presidente sarebbe espressione di una maggioranza solida, non al di sotto del 55%, soglia che verrebbe costituzionalizzata a prescindere dal sistema elettorale da disciplinare con legge ordinaria.

Al presidente eletto conferisce l’incarico pur sempre il capo dello Stato e il suo Governo non viene esonerato dal voto di fiducia: entro 10 giorni deve presentarsi alle Camere per ottenerla e sono previsti due tentativi.

Se la mozione è respinta, il presidente della Repubblica conferisce di nuovo l’incarico al Presidente eletto; se la fiducia fosse ancora respinta “il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere”.

Può essere sostituito il presidente eletto? Il disegno di legge risponde affermativamente: è prevista la “cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio”. In questo caso, “il presidente delle Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare eletto in collegamento al presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del presidente eletto ha chiesto la fiducia delle Camere”. Quindi è possibile un tentativo per portare avanti la Legislatura in caso di crisi di Governo.

Queste le coordinate principali del disegno di legge. Si vede subito che è stata operata una scelta soft: non è venuto fuori un vero premierato; anzi, la definizione del Governo presente nell’art. 92 Cost. è rimasta intatta: “Il Governo della Repubblica è composto dal presidente del Consiglio e dai ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri”.

Quindi, nessuna enfasi sul presidente. Ma, ancora più nella sostanza, nessuno dei poteri tipici del premier è stato previsto: non la nomina e la revoca dei ministri, né il potere di scioglimento delle Camere, rimasti entrambi in capo al presidente della Repubblica.

Questa versione minimal del resto è determinata proprio dalla necessità di salvaguardare la figura del capo dello Stato; si può dire anzi che è il risultato di una vera a propria torsione programmatica operata da Fratelli d’Italia, da sempre legata al presidenzialismo sotto la specie dell’elezione diretta del presidente della Repubblica.

I tribolati accadimenti della politica italiana hanno però alla fine convinto anche i più restii che il profilo di garanzia del capo dello Stato assicura equilibrio, continuità e stabilità a tutto il sistema e non vale la pena di metterlo in crisi.

Questa scelta è ciò che distingue il disegno di legge governativo dall’altro, in apparenza analogo, presentato dal sen. Matteo Renzi: questo pure prevede l’elezione diretta del capo del Governo, ma ne fa derivare anche i poteri di nomina e revoca dei Ministri e di scioglimento delle Camere, come premierato vuole né, punto cruciale, è soggetto alla fiducia delle Camere. Da qui le scaramucce cui cominciamo ad assistere e cui certamente assisteremo durante i lavori parlamentari.

Ma c’è spazio per modifiche? L’aria non è favorevole: il limite invalicabile per la maggioranza pare essere l’elezione diretta, che non è accettata né dal PD né da M5S, quindi i margini non sembrano tali da poter sperare in una riforma condivisa.

Del resto la presidente Meloni è stata chiara: si affronterà il referendum. Ma anche all’interno della maggioranza ci sono alcune indecisioni. La più rilevante riguarda la possibilità di sostituzione del presidente eletto, al momento prevista, come detto. In realtà il sistema (che guarda alle Regioni e ai Comuni più grandi) avrebbe maggiore coerenza con la regola simul stabunt, simul cadent, per cui se va in crisi il Presidente eletto, cadono anche le Camere e si torna al voto.

La Lega ha però ritenuto esagerato questo potere (“potere di ricatto”, l’ha definito) del presidente nei confronti del Parlamento e ha preteso la soluzione B. Va meglio? Va peggio? Se guardiamo all’ispirazione di fondo dell’iniziativa, vediamo che essa è determinata da una serie di motivazioni, ognuna delle quali andrebbe approfondita: la volontà di riportare in mano al cittadino la scelta di chi lo governerà; la necessità di garantire governi stabili e durevoli scrivendo la parola fine sul continui tourbillon di cambi di governo, perniciosi in patria (efficace la motivazione data in conferenza stampa da Giorgia Meloni, che ha riconosciuto in questo la causa prima delle politiche di corta gittata e grande dispendio di cui l’Italia cui ci siamo tristemente abituati), ma perniciosi anche all’estero; dire basta anche ai ribaltoni che hanno portato al governo i partiti usciti sconfitti dalle urne e, ultimo ma non postremo, sbarrare per sempre la strada agli invisi governi tecnici.

Se tali sono le finalità da cogliere, lo spazio per cambiamenti sostanziali non appare presente. Ma i nostri politici hanno saputo stupirci tante volte, chissà che non si trovi “una quadra” per l’approvazione a maggioranza qualificata. La speranza e l’appello sono d’obbligo.

Detto questo, però va anche tentata una considerazione di fondo. Nessuno può negare che il succedersi dei gabinetti abbia caratterizzato il governo nazionale da sempre e che questo fenomeno sia scivolato sempre più verso una vera e propria instabilità politica, cui il disegno di legge vuole porre rimedio.

Ma siamo sicuri che non stiamo somministrando una dose massiccia di paracetamolo al paziente affetto da febbroni ricorrenti, senza andare a vedere da cosa è determinata la febbre? I governi cadono con facilità è vero, ma non per merito di una opposizione forte, determinata ed efficace, che alla fine fiacca la maggioranza, costretta ad arrendersi.

Magari… saremmo in un sano gioco democratico. In Italia i governi cadono per auto implosione; sono sempre le maggioranze che determinano la loro sconfitta. A questo problema endemico della nostra politica non pone rimedio neppure la riforma proposta. Certo, le regole aiutano a mitigare gli eccessi umani e qualcosa farebbe anche un sistema come quello disegnato; ma non guarirebbe la malattia sottostante. Il presidente del Consiglio, dovendo ottenere la fiducia, non sarà esente dalle solite e ben note dinamiche.

Neppure la previsione di una maggioranza del 55% (almeno) mette davvero al riparo da questi rischi e tant’è che c’è stato chi si è incaricato di pretendere la seconda chance.

La malattia del sistema italiano non è l’instabilità, che ne è il gigantesco sintomo, sono i partiti ormai scivolati (o scivolanti) verso il protagonismo leaderistico-populistico-propagandistico, poco ancorati a un vero disegno di crescita sociale e politica, a lungo termine, del Paese, il che determinato nel tempo anche il ricorso ai governi tecnici.

Preoccupati soprattutto del destino proprio e del proprio leader, alcuni partiti (e non particolarmente grandi) sono pronti a prendere in ostaggio il Capo del Governo anche fosse animato dalle migliori intenzioni, e questo si potrà ancora verificare. Se questo è vero almeno un po’, deve accendersi una spia di allarme, perché se passasse questa riforma costituzionale e dopo un torno breve di anni ci si rendesse conto che le cose non funzionano lo stesso, si potrebbero invocare altri aggiustamenti sempre innocentemente indirizzati a stabilizzare il governo, imboccando però un pendio scivoloso verso un sistema a democrazia ridotta, per dirla senza enfasi.

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