Il posto dell’Italia nel “grande gioco”

Il ruolo possibile della società civile per non cedere alla politica delle armi. Occorre cercare «alternative credibili se non vogliamo finire per arrenderci alle “guerre giuste”» (Alex Langer)
Italia nel grande gioco (AP Photo/Pavel Golovkin)

L’Italia e la guerra. L’insenatura di mare nella terraferma di Cagliari porta il nome di Golfo degli Angeli perché legato al racconto arcaico di una lotta tra demoni e angeli, con gli esseri luminosi vincitori nella difesa dell’isola verde, la Sardegna, abitata da un popolo pacifico. La Sella del diavolo è il promontorio che sorge a Sud della città dove, secondo la leggenda, precipitò Lucifero. Non è poi così difficile passare dal mito, ancora vivo in un territorio abitato da migliaia di anni, allo scenario attuale.

Il direttore di Repubblica Maurizio Molinari definisce il nostro Paese, posto nel mezzo del Mar Mediterraneo, come il “campo di battaglia” decisivo del “grande gioco”. Termine che indica lo scontro tra grandi potenze per l’egemonia geopolitica. “L’Occidente è sotto assedio”, per riprendere l’immagine di Molinari, di Russia e Cina, oltre ad altri Paesi emergenti, che usano tattiche diverse. Da quello classico dello scontro militare, come può avvenire con Mosca sul confine ucraino, a quello economico e commerciale esercitato da Pechino. Uno scenario aggravato dal fenomeno epocale delle grandi migrazioni, dall’emergenza ambientale di tipo apocalittico con le avvisaglie della pandemia in corso.

Prospettiva condivisa da Federico Rampini, altro noto giornalista liberal, convinto della necessità di “fermare Pechino”. Secondo tale tesi, comune a molti importanti istituti di analisi, l’Europa non potrebbe fare la sua parte nel “grande gioco” senza una politica di riarmo. È giusto costruire scuole, ospedali e asilo nido, ma ora è il momento storico di investire nelle armi: «Non esistono superpotenze erbivore», afferma Rampini. Le spese militari sono aumentate del 20% negli ultimi 3 anni secondo l’osservatorio Milex.

Di fronte a questo sentire comune negli ambienti influenti, occorre cercare «alternative credibili se non vogliamo finire per arrenderci alle “guerre giuste”», come diceva il pacifista Alex Langer nel 1991, davanti alla guerra allora in arrivo nell’ex Jugoslavia. Di fatto, il nostro futuro dipenderà dal vertice dei Paesi Nato che nel giugno 2022 si raduneranno a Madrid per approvare il “nuovo concetto strategico di difesa” definito dal segretario generale dell’Alleanza Atlantica, il laburista norvegese Jens Stoltenberg, con un gruppo di esperti tra i quali c’è Marta Dassù dell’Aspen Institute Italia.

La fedeltà alla Nato è stata celebrata solennemente, in occasione dei 70 anni di presenza in Italia, il 17 settembre 2021 nella sede del comando strategico di Napoli, a pochi giorni dal fallimento della ventennale missione militare in Afghanistan che ha bruciato miliardi di dollari in armi producendo migliaia di vittime civili e militari. L’opinione pubblica, seguendo l’agenda dei maggiori media, ha archiviato rapidamente la riconsegna di quel Paese nelle mani del regime talebano così come pattuito dagli Usa in Qatar.

Suscita legittime domande anche il “Trattato del Quirinale” siglato il 26 novembre 2021 tra Francia e Italia senza una riflessione sul disastro dell’intervento militare occidentale in Libia imposto da Parigi nel 2011. Domande che si allargano sul futuro delle industrie di armi dei due Stati “cugini” in forte competizione tra loro per assicurarsi le commesse anche di Paesi in guerra. È eclatante il caso dell’Egitto del regime di Al Sisi, al quale la nostra Fincantieri ha venduto due navi da guerra come anticipo di una più grande fornitura in arrivo. Macron ha affermato che gli interessi economici e strategici del suo Paese non possono dipendere dalla questione dei diritti umani.

Una “dottrina” che sembra seguire anche l’Italia considerando il caso irrisolto dell’assassinio del giovane ricercatore Giulio Regeni da parte dei servizi segreti egiziani e la massiccia presenza delle nostre aziende alla fiera delle armi promossa a Il Cairo a dicembre 2021.
Dopo la tappa romana, il presidente francese, in cerca di riconferma all’Eliseo nel voto di aprile 2022, è volato in Qatar passando per gli Emirati Arabi Uniti, dove ha venduto 80 aerei da combattimento Rafale per 16 miliardi di euro, e per l’Arabia Saudita dove, a marzo 2022, si terrà la più grande esposizione mondiale dei sistemi d’arma organizzata in base a “Saudi Vision 2030”, il piano strategico elaborato dalla società di consulenza McKinsey.

Le politiche di riarmo comportano inevitabilmente la necessità di porsi sul mercato per rientrare delle spese e investimenti. Ma c’è qualcosa che ostacola un ingranaggio così ben oliato.

Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti sono i due Paesi verso cui l’Italia ha revocato la vendita di missili e bombe d’aereo prodotte dalla società Rwm, con sede a Ghedi (Brescia) e stabilimento in Sardegna. Una scelta avvenuta durante i due governi di Conte grazie a una decisa campagna di pressione nazionale nata dall’ostinato impegno del comitato sardo per la riconversione Rwm.

Un’istanza di cambiamento delle scelte economiche del nostro Paese che può partire dal territorio sardo del Sulcis Iglesiente, destinatario diretto, tra l’altro, di apposite risorse dell’Ue per la “giusta transizione”. È nata anche dalla società civile una rete di imprese libere dalla guerra (War free) proiettata a livello internazionale.
Un messaggio da cogliere ad inizio 2022 per capire il nostro posto nel “grande gioco”.

La Conversione ecologica libera dalla guerra

È estesa su 200 ettari del Sulcis Iglesiente, in Sardegna, la Rwm Italia, società della multinazionale Rheinmetall con sede a Düsseldorf, Germania.

Grazie alla presa di coscienza maturata sul territorio, è emerso lo scandalo delle bombe d’aereo e missili inviati verso l’Arabia Saudita, Paese impegnato nella guerra in Yemen dal 2015. Flusso che è stato prima sospeso nel 2019 e poi interrotto nel 2021 per scelta dei due governi Conte su voto a maggioranza della Camera. Si tratta dell’applicazione più importante della legge 185/90 che vieta la fornitura di armi ai Paesi guerra e/o contrari ai diritti umani.

Un segnale che allarma l’intero sistema delle imprese della Difesa controllate dallo Sato, come dimostra la controversa fornitura di navi da guerra da parte di Fincantieri al governo egiziano del generale Al Sisi. Da parte sua, la Rwm ha ribadito, in un’audizione alla Camera, la volontà della Rheinmetall di porsi come partner strategico dell’Italia in settori innovativi come, ad esempio, i droni kamikaze. Armi letali usate dall’esercito azero contro quello armeno nel settembre 2020 in Nagorno Karabakh.
La Sardegna, ricca di bellezze storiche e ambientali, è teatro di esercitazioni belliche e sede di poligoni militari fortemente inquinanti. Per uscire dal ricatto occupazionale, il comitato riconversione Rwm ha avviato il progetto “War free”, rete di imprese libere dalla guerra, grazie al sostegno della Federazione delle chiese evangeliche e, in particolare di quella della regione tedesca del Baden. Una proposta presentata il 20 novembre 2021 presso la facoltà di Economia dell’Università di Cagliari con il coinvolgimento di docenti e ricercatori impegnati in progetti di conversione ecologica integrale.
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