“Più chiusura se gli svizzeri si lasciano frenare dalla paura”

L'esito del referendum che si è svolto in Svizzera è destinato a riaprire il dibattito sulla libera circolazione delle persone nell'Unione europea. Seconda parte dell'intervista all'economista Luca Crivelli
La Svizzera sbatte la porta all'Europa

Dopo la pubblicazione della prima parte, continuiamo l’intervista a Luca Crivelli, professore di Economia politica presso l’Università della Svizzera italiana.

Come sono, di fatto, i rapporti della Svizzera con l’Unione europea? 
«La Svizzera ha vissuto anni difficili dopo la votazione del 1992 (con la mancata adesione allo spazio comune europeo), proprio per il fatto di essersi trovata emarginata dal mercato europeo. Anche il “grounding” (fallimento) della compagnia aerea Swissair, avvenuto nel 2001, ha a che fare con questa segregazione. Il governo federale ha dovuto pertanto percorrere il sentiero degli accordi bilaterali e dieci anni dopo ha ottenuto, con parecchie concessioni a Bruxelles, le stesse condizioni di partecipazione al progetto europeo di cui avrebbe beneficiato se nel 1992 avesse aderito allo spazio economico».

Quali sono state le conseguenze?
«Da quel momento la Svizzera ha ricominciato a crescere economicamente con grande vigore. Il Paese ha superato indenne la crisi finanziaria del 2008, evidenziando un tasso annuo di crescita della popolazione pari a 1,1 per cento (uno dei più alti in Europa) e una eccellente performance economica. Ma a fronte di questo aumento del benessere medio, si è registrato anche un aumento delle diseguaglianze. E in un contesto in cui una maggioranza del Paese vede allontanarsi il tenore di vita di una minoranza, diventa più facile far breccia nel cuore della gente con messaggi populisti e “comunitaristi” (facendo leva sul “noi”, contrapposto a “loro”). In Svizzera la percentuale di stranieri residenti (senza dunque contare i frontalieri) si assestava nel 2012 al 23,3 per cento, tre volte la percentuale di stranieri residenti in Italia (secondo i dati di Eurostat la percentuale di stranieri in Italia nel 2012 era pari a 8,1 per cento)».

Considerando l’espansione delle multinazionali svizzere nel mondo, non esiste anche nel vostro Paese il fenomeno e la paura della delocalizzazione?
«Le multinazionali hanno già delocalizzato il comparto produttivo-industriale. Il risultato del referendum può diventare un problema per la vera forza trainante dell’economia elvetica: il progresso tecnologico, l’innovazione, la ricerca. I limiti alla circolazione delle persone che l’iniziativa propone di introdurre renderanno più difficile l’afflusso dei cervelli nelle aziende svizzere del terziario avanzato e dell’high tech (che il Paese non è in grado di formare autonomamente in quantità sufficiente). Le università potrebbero restare escluse dalle principali iniziative di ricerca e sviluppo a livello europeeo. Si vocifera che la Svizzera potrebbe ora venir esclusa da Erasmus+ e da Horizon2020, un cantiere a cui le università svizzere devono poter partecipare se vogliono rimanere in rete con i migliori centri di ricerca ed innovazione a livello europeo. Ricordo che il più grande progetto di ricerca (European flagship) attribuito nel 2013 dall''UE è stato lo “Human Brain Project” (1 miliardo di euro), vinto da un network di istituzioni accademiche capeggiato dalla Svizzera (il politecnico federale di Losanna)».

Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo, ha detto di temere che il risultato del referendum in Svizzera  scatenerà un nuovo dibattito sulla libera circolazione delle persone in seno alla Ue. Non è questo un limite del meccanismo della democrazia diretta svizzera che solletica a prendere consensi umorali, non mediati da una più ampia discussione e mediazione politica? 
«Sono d’accordo. Il problema messo a nudo dalla Svizzera è un problema più ampio, oggi molto sentito da fette importanti della popolazione anche a livello europeo. Questo risultato rende indispensabile una riflessione sul modello di sviluppo che l’Europa intende seguire (che a mio avviso dovrebbe essere più inclusivo) e sulla creazione dell’identità europea (che non può essere solo economica). Ma mette anche a nudo i limiti della democrazia diretta (sono convinto che risultati simili si sarebbero ottenuti pure in Olanda, Belgio, Francia, Inghilterra e forse persino in Italia, se ci fossero delle istituzioni di voto simili a quelle elvetiche). Il voto popolare serve a rendere esplicito un malessere, è un “freno a mano” nelle mani del popolo verso il sistema politico. Ma non sempre è il sistema migliore per trovare soluzioni adeguate ai problemi. Perché alla fine hanno il sopravvento le paure, abilmente risvegliate da cartelloni pubblicitari fuorvianti e parziali, che muovono la pancia e non la testa. E così i problemi non li si risolvono, ma li si possono addirittura esasperare, come fu il caso vent’anni fa con la mancata adesione della Svizzera allo Spazio economico europeo. Purtroppo la memoria rispetto a queste scelte è sempre troppo corta».

(Continua)

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