Piccolo Paese, grande scrittore

Nuova traduzione italiana del racconto-capolavoro di Ivan Cankar, il massimo autore sloveno. Uno che del suo mestiere fece uno strumento di lotta
Lubiana, capitale della Slovenia. Città dove visse, studiò e morì lo scrittore

Nelle foto d’epoca che lo ritraggono, quei buffi baffoni all’insù non riescono a mitigare l’espressione sofferta di uno la cui infanzia era stata segnata dalla miseria e dall’assenza del padre, dalla morte prematura della madre e dalle tante lotte e delusioni della vita. Autore fecondo e versatile, assorbì e attraversò tutte le scuole letterarie della sua epoca (decadentismo, simbolismo, naturalismo, idealismo, modernismo, espressionismo…), lui stesso fondatore con altri tre amici della “Moderna”, con l’ambizioso programma di dare alla piccola patria slovena – storicamente e culturalmente emarginata – un’arte e una cultura di cui andar fiera nel consesso europeo.

Favorevole all’unificazione politica degli slavi del sud (serbi, sloveni e croati) nell’inquieto universo austro-ungarico, si oppose alla loro fusione culturale e linguistica. Amante dei paradossi e del sarcasmo, natura sentimentale, fu sensibilissimo alle questioni etiche. Due volte in carcere, la prima per diffamazione della monarchia austro-ungarica, la seconda – dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale – per presunti atteggiamenti filo-serbi, fu polemico verso ogni ipocrisia, ma per niente tenero neanche verso sé stesso. Definito ora socialista agnostico ora credente sui generis con una forte propensione per la giustizia sociale, di certo rimase refrattario ad ogni incasellamento.

Fu tutto questo Ivan Carkar, il più rappresentativo narratore sloveno, fine saggista ed efficace drammaturgo, talvolta paragonato a Franz Kafka e James Joyce. Così lo descrive un suo connazionale, il pubblicista e politico Rudolf Golouh: «Chiaro, naturale, sincero, comunicativo con semplicità e tuttavia sui generis […] Era sinceramente dedito all’idea socialista e confidava nelle forze del popolo, che iniziavano a destarsi. Era sloveno dalla testa ai piedi, tutta la sua essenza era radicata nel popolo sloveno, che egli amava come pochi altri; ma in tutto il suo modo di pensare era allo stesso tempo universalmente umano».

Ivan Cankar, autore sloveno

Per questo essere fedele alla propria identità culturale ma al tempo stesso solidale con l’uomo sofferente di ogni latitudine, Cankar esercitò con le sue opere un influsso notevole non solo in terra slovena, ma in tutta Europa, non solo nell’epoca in cui visse, ma fino ai nostri giorni (le sue storie e i suoi personaggi hanno ancora un ruolo importante nelle scuole, nelle istituzioni culturali e nella vita privata di molti sloveni). In Italia, a raccoglierne l’eredità fu il grande scrittore istriano Fulvio Tomizza, che dal suo romanzo Martin Kačur trasse una pièce, L’idealista, portata al successo nel 1976, al Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia, dall’attore Corrado Pani.

Figlio di un artigiano emigrato in America e mai più tornato, Ivan Cankar era nato nel 1876 nella periferia povera di Vrhnika, non lontano da Lubiana, l’allora capitale del Ducato di Carniola, una delle tessere del variegato mosaico del Sacro Romano Impero. Aiutato negli studi da concittadini generosi motivati dalle sue doti non comuni, il giovane Ivan frequentò le scuole superiori a Lubiana e l’università a Vienna, dove condusse vita da bohèmien, dedicandosi a tempo pieno alla attività letteraria, primo autore sloveno a guadagnarsi da vivere esclusivamente con la scrittura. Dai poveri e dagli emarginati incontrati nei sobborghi della capitale asburgica trasse ispirazione per le sue opere narrative e teatrali, e contemporaneamente elaborò le sue idee socialiste. Rimase sempre celibe: non tanto, forse, per colpa del suo carattere spigoloso, quanto per l’urgenza di realizzare la vocazione di scrittore a cui si sentiva chiamato fin dagli anni dell’adolescenza.

Nel 1917 fu arruolato nell’esercito austro-ungarico, ma congedato per motivi di salute. Morì a Lubiana a soli 42 anni in quel 1918 che segnò la fine della “grande guerra”. Di essa aveva rappresentato gli orrori e l’insensatezza nella sua ultima raccolta di racconti Immagini dal sogno, pubblicata postuma nel 1920. L’edizione italiana di quest’opera, ritenuta l’apice della prosa poetica di Cankar, apparve nel 1983 per i tipi della Marietti. Ultimamente la stessa editrice ha pubblicato in una nuova traduzione più fedele al testo originale quello che è considerato il suo capolavoro e che lo stesso autore prediligeva: Il servo Jernej e la sua giustizia, scritto nel 1907, nei giorni frenetici delle prime elezioni parlamentari a suffragio universale in Austria-Ungheria che videro Cankar candidato nelle fila della socialdemocrazia per il distretto elettorale di Zagorie-Litija in Carniola.

Protagonista di questo racconto dallo stile cristallino è un vecchio contadino che dopo aver lavorato per quarant’anni in piena armonia col padrone, dopo la morte di lui viene scacciato dalla casa e dai campi per i quali ha profuso il suo sudore. Da allora, va peregrinando e chiedendo giustizia a chiunque incontri: i compaesani, i bambini, il sindaco, il giudice, il prete, fino a Vienna dove pensa ingenuamente di sottoporre il proprio caso all’imperatore. Ma da nessuno riceve soddisfazione… perché «è legge umana e comandamento divino che il servo debba obbedire al suo padrone», perché «così è stato da sempre e così sarà in eterno. Altrimenti il mondo andrebbe alla rovescia». Anche se maltrattato, deriso come mendicante, vagabondo o pazzo, messo in prigione alla stregua di un delinquente, il buon Jernej perdona sempre e va avanti, ritenendosi padrone di quella casa e di quei campi che lui, non altri, ha costruito e lavorato; è l’amore col quale si è speso che gli conferisce il diritto di proprietà. Nel pregare, egli si appella a Dio: «Padre nostro, che sei nei cieli… la tua giustizia cerco, quella che tu hai mandato al mondo|!». Finché, disperato per non ottenerla e dubbioso anche della esistenza di Dio, appicca il fuoco alla casa e ai campi frutto del suo lavoro, trascinando anche sé stesso nella rovina.

Nella sua Introduzione la curatrice Maria Bidovec indugia sulle varie interpretazioni date di questo racconto: da quella vede «in Jersej un semplice precursore della lotta di classe armata, condannato all’insuccesso per aver agito da solo e non all’interno di una lotta organizzata», a quella di carattere religioso che considera lo sfortunato servo «come discepolo di Cristo, votato come lui al martirio».

«Figura tragica, primo vero ribelle della letteratura slovena», Jersej ci lascia attoniti e come scottati dopo il passaggio di un profeta biblico.

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