Perle nascoste

Potrei parlarvi del rock fracassone e furbissimo dei Linkin Park, in testa alle classifiche di mezzo mondo col loro Meteora. O dei redivivi Placebo, icona post-moderna dell’inquietudine rockettara il cui recentissimo Sleeping with ghosts li ha confermati tra i gruppi più trendy in circolazione. O magari restare in Italia, e accennare agli eccellenti ritorni dei Subsonica e dei La Crus, ovvero le realtà più ispirate e significative della scena rock nostrana. E invece no. Per una volta ancora preferiamo inabissarci nel gran mare discografico a caccia di ostriche e, possibilmente, di perle. Impresa certo meno gratificante della pesca d’altura garantita dai succitati big, ma certo non meno necessaria alla salvaguardia di un ecosistema minacciato tanto dagli inquinamenti mercantilisti quanto dallo strapotere dei soliti noti, gli ultimi capaci di sopravvivere dignitosamente alla carestia imperante. Tra gli scogli e i silenziosi fondali di questo tenebroso mare cresce una fauna cocciuta, abituata a vivere di poco, grazie alla volontà loro e di qualche spericolato mecenate. Dischi realizzati in francescana economia e concerti malpagati, ovunque si trovi gente disposta ad azzardare una risalita controcorrente. Per i mercanti sono solo mitili di troppo scarso valore, ma per chi persevera non è raro imbattersi in alcune perle capaci di ripagare abbondantemente la fatica, le apneee, e l’inospitale pesantezza di codesti anfratti. Gli Aluminium Group, per esempio. Nel loro recente Happiness (Wishing Tree Records), bellamente ignorato perfino da buona parte della stampa specializzata, inanellano una soave sequenza d’acquerelli sonori nei quali non è difficile riconoscere echi di antiche meraviglie (Simon & Garfunkel in primis) e respirare la dolcezza minimalista e acusticheggiante di canzoni che paiono fatte su misura per preser varc i dall’angoscia di questi giorni così inquieti. Lucia Minetti, per esempio. Da non confondere con la meteoritica Annalisa sanremese, l’eclettica vocalist torinese è tornata di recente sui mercati con un gioiellino sospeso tra jazz notturno, rispettose evocazioni di chansonnier transalpini, (prima tra tutti la grandissima e misconosciuta Barbara), classici nostrani riesumati dalla notte dei tempi con grande gusto e rispetto tutt’altro che pedestre. Mormoro l’amore (M.A.P.) è una delizia destinata a pochi palombari, così come lo era il suo disco precedente dedicato al fado portoghese. Ma il solo fatto che continui a pubblicare (e dunque a far quadrare i conti) è già un segno di speranza per tutti i volenterosi che da più parti s’adoperano a far sopravvivere la razza cantautorale senza imbastardirla con le cantilene del pop o i rocketti da supermercato. Agli amanti della patchanka à la Manu Chao consiglio invece il bizzarro pout-pourri dei Dusminguet; il loro Go (Virgin) è un gran frullato di rock’n’folk, tanto povero nell’impostazione quanto coinvolgente nell’esito. E che dire dell’inossidabile Eric Andersen e del suo Beat Avenue (Appleseed)? Uno dei primi eroi del cantautorato del Greenwich Village new-yorkese sopravvissuto ai decenni e al suo stesso mito con un rigore e un’onestà intel- lettuale che ha del miracoloso. Certo la formula quella riconducibile al solito folk-rock d’autore, ma la passione e l’intensità di questa dozzina di nuove canzoni quasi commuovono. Ovviamente non pensate di trovare queste delizie sui banconi di un autogrill. Ci vuole pazienza e febbre investigativa per arrivare procacciarseli, perfino per le produzioni italiane come il fossatiano Marco Berruti col notevole Così è per me; o il coraggioso tributo Piero Ciampi del conterraneo Luca Faggella (Premio Tenco 2002), o gli Indaco di Rodolfo Maltese col raffinato Terra Maris. Oppure, ancora l’originale fusion cantautorale di Dado Bargioni & The Mob con Contro Copernico (tutti accasati presso la Storie Di Note). Idem dicasi per Chiaroscuro e il loro spumeggiante Conversazione a tre (per la neonata etichetta romana D’Autore), o il minimalismo poetico di Lalli col leggiadro All’improvviso nella mia stanza (per Il Manifesto); la ruspante autoproduzione della caposseliana Banda del Ducoli col delizioso Taverne stamberghe caverne; gli umori pan-mediterranei degli Etnoritmo di Sitanafri (per la Cni). Tutti dischi di certificata qualità, assolutamente degni di uscire dalle nicchie e dai bassifondi, ma destinati a restare nascosti (come cento altri che solo la tirannia dello spazio non ci consente di citare). E in fondo è giusto così: non foss’altro per preservarli dai tritatutto del consumismo usa e getta. FESTIVAL SULL’INDIA Dal 16 al 18 maggio l’Auditorium Parco della musica Roma ospiterà la musica indiana tradizionale ed elettronica, cinema di Bollywood, la letteratura, la moda, la gastronomia e il folklore. Il Sangeet Mela articola – in tre serate di musica dal vivo – e propone ben sei concerti dei maestri della musica indiana tradizionale, Fahimuddin Dagar, Shubha Mudgal, Ustad Asad Alì Khan e degli esponenti della scena londinese anglo-indiana Talvin Singh, Clevelan Watkiss e State of Bengal, che presenteranno in anteprima europea il loro nuovo Cd.

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