Il Partito democratico al bivio delle primarie

Sfida tra Bonaccini e Schlein per la direzione di un partito chiamato ad affrontare un lungo periodo di opposizione al governo Meloni. Intervista al politologo Paolo Pombeni
Partito democratico Alessandro Bremec/LaPresse Stefano Bonaccini ed Elly Schlein

Il Partito democratico si trova davanti ad un crocevia importante nella sua storia recente che lo vede attualmente all’opposizione del governo Meloni, dopo aver costituito l’asse decisivo del secondo esecutivo di Giuseppe Conte, in alleanza con il M5S, e di quello di emergenza nazionale guidato da Mario Draghi.

Secondo alcune voci significative, come la ex presidente del Pd Rosi Bindi, il partito avrebbe avuto bisogno di un dibattito aperto sulla sua identità prima di arrivare all’elezione del nuovo segretario nazionale che avverrà con il metodo delle primarie aperte. Potrà votare, cioè, qualsiasi cittadina o cittadino italiano dai 16 anni in su, compresi i residenti all’estero che lo faranno on line, oltre ai cittadini stranieri residenti in Italia. È richiesto solo un contributo spese di 2 euro.

Il voto dei soli tesserati del partito ha, già, permesso di selezionare due tra i 4 candidati iniziali alla segreteria, certificando ciò che già si sapeva e cioè che alla sfida decisiva sarebbero arrivati Stefano Bonaccini e Elly Schlein, rispettivamente presidente e già vicepresidente della Regione Emilia Romagna, l’unica ancora a guida dem assieme a Toscana, Campania e Puglia.

Gli altri candidati, Gianni Cuperlo e Paola De Micheli, hanno raccolto solo il 7,96% e il 4,29% dei voti degli iscritti al Pd, distaccati a lunga distanza da Bonaccini (52,87%) e da Schlein (34,88%) che ha però vinto in città come Milano e Roma. Complessivamente hanno votato 156 mila iscritti al partito considerato tuttora l’ultimo di una tradizione novecentesca dove i tesserati si contavano, però, a milioni di persone.

Sulla competizione del 26 febbraio abbiamo chiesto il parere di Paolo Pombeni, tra i maggiori politologi italiani, autore di importanti opere di storia del pensiero politico e di recente, tra l’altro, di un agile volume che si intitola “Sinistre, un secolo di divisioni” (Il Mulino, 2021).

Si rischia di fare un torto all’intelligenza di chi legge, ma occorre ribadire, soprattutto in tema di politica, che le interviste di una fonte di informazione sono uno strumento di approfondimento di diverse opinioni che non esprimono una linea della testata o di chi formula le domande, ma sono a servizio del dibattito democratico.

Pombeni, professore emerito presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna, è editorialista di diverse testate nazionali, direttore del periodico on line Mente politica.

Come valuta la procedura delle primarie aperte per la scelta del segretario del Pd?
Per la scelta di un segretario di partito primarie aperte sono una contraddizione in termini. Il segretario guida il partito e dunque interessa i suoi militanti, non chiunque voglia inserirsi senza una storia interna. In questo caso poi l’aver addirittura ammesso che si potesse candidare chi si era iscritto da pochi giorni e non aveva militanza precedente svaluta completamente la natura della azione politica in un partito.

Esiste a suo parere un numero minimo di votanti per poter affermare il valore della partecipazione?
Proprio per la natura della funzione del segretario non c’è un numero minimo di partecipanti: l’importante sarebbe che tutti quelli che andranno a votare siano persone disponibili a “lavorare” per il PD e non semplicemente a dire che probabilmente lo voteranno (senza neppure poter controllare la sincerità di questa promessa).

Ha detto che una linea di vera sinistra poteva emergere dalla candidatura di Cuperlo, il quale però ha raccolto un basso consenso tra i tesserati. Come si può definire l’identità del Pd?
Purtroppo queste “primarie” sono modulate sullo schema del televoto nelle competizioni televisive. Cuperlo è una espressione vera della tradizione di sinistra del partito e raccoglie un terzo dei voti di Schlein che rappresenta la sinistra dei talk show. Questo perché il Pd al momento non ha un programma e degli obiettivi razionalmente elaborati (l’identità è un concetto folkloristico in una forza politica).

A suo parere, cosa distingue in sostanza la linea dei due candidati?
La differenza fra Bonaccini e Schlein è più nella storia di ciascuno e nelle prove che ciascuno ha dato o non ha dato di saper fare azione di governo che non nelle piattaforme. Entrambe riprendono più o meno i temi che i media hanno imposto e li differenziano con un po’ di “colore” di diversa percezione.

Esiste un rischio di ulteriore scissione del partito dopo il voto delle primarie?
Il rischio di scissione esiste perché è in atto una risistemazione di tutto il nostro quadro politico e la tradizione della sinistra è, purtroppo, quella di dividersi e di scomunicarsi a vicenda.

Pur essendo ancora presenti nel partito, e controllando una parte importante degli iscritti, gli esponenti di punta di cultura cattolico democratica non si sono candidati per la direzione del Pd. È un segnale della loro progressiva irrilevanza?
La scarsa rilevanza degli esponenti della cultura cattolica è data dalla loro modestia culturale, salvo rare eccezioni. Non si diventa leader se non si ha capacità di guadagnarsi la fiducia proponendo programmi da realizzare e mostrando di avere i mezzi intellettuali e di seguito che li rendono credibili. L’assenza oggi di un movimento sociale cattolico priva anche gli esponenti migliori dell’acqua in cui nuotare.

Anche se i (pochi) voti delle urne vanno e vengono in questa seconda o terza repubblica, sembra che Meloni riesca ad esprimere una maggioranza parlamentare stabile e una crescente egemonia culturale che deve consolidarsi con il nuovo assetto della Rai e le nomine nelle società controllate dallo Stato. Chiunque vincerà le primarie del 26 febbraio deve prepararsi, a suo parere, ad un lungo periodo di opposizione destinato a durare cioè almeno due legislature?
Di questi tempi travagliati scommettere sulla tenuta addirittura di due legislature è azzardato, ma certamente per ora Meloni e la sua maggioranza (obbligata più che convinta) non vedono all’orizzonte alcun rischio di caduta. Chi vincerà le primarie del Pd dovrà mostrarsi capace di “fare concorrenza” alla domanda di “conservazione” o anche semplicemente di stasi nella rincorsa al cambiamento per il cambiamento, cioè a quello che ha portato la destra-centro a vincere le elezioni. Per questo avrà bisogno di svincolarsi dal progressismo da fumetti veicolato dal sistema dei media. Ma è una navigazione controcorrente e controvento: richiede capitani molto coraggiosi.

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