Non un problema di polizia

Tredici bare avvolte in grandi bandiere azzurre con una stella bianca, allineate sulla piazza del Campidoglio, ricevono gli onori delle autorità. Ci sono il ministro dell’Interno Pisanu e il sindaco di Roma Veltroni, alcuni diplomatici, e c’è una numerosa folla. Si direbbero le salme rimpatriate degli eroi di una grande battaglia combattuta per la patria. Sono i naufraghi somali di Lampedusa. Vittime anonime di un’altra battaglia combattuta e perduta da loro contro l’ostilità degli elementi naturali, la perfidia dei negrieri e l’ottusità delle norme internazionali che in parte determinano questi avvenimenti. E perduta anche da noi, questa battaglia – dobbiamo dirlo con franchezza – perché non siamo arrivati in tempo a salvarli, impastoiati come siamo nelle nostre contraddizioni. Ancora ieri si discuteva vivacemente intorno alla nuova situazione creatasi per la proposta di Fini di concedere il voto amministrativo agli immigrati in regola con quasi tutti gli adempimenti penali, fiscali e amministrativi che la legge richiede oggi per ottenere la cittadinanza. Ma l’interesse pareva vertere più che sul merito stesso della proposta, sulle ripercussioni che l’iniziativa così controversa avrebbe creato nella maggioranza di governo. E in secondo luogo sull’effetto di trascinamento che avrebbe potuto avere in Europa, dove pure il problema è sentito, ma viene affrontato in ordine sparso senza alcun coordinamento. Di colpo, la macabra carretta approdata a Lampedusa col suo carico di morte e di dolore ha focalizzato l’interesse sul cuore del problema, facendo apparire marginale, al confronto, il dibattito di ieri. Certo è inderogabile riconoscere determinati diritti e doveri a chi lavora da anni nel nostro paese, rendendosi utile e talora indispensabile, ma ancor più impellente appare oggi evitare l’ecatombe in atto. Stiamo ancora costruendo un’Europa che si apre ad una nuova dimensione e vede moltiplicarsi con ciò i suoi problemi interni di convivenza e coordinamento, al punto di non riuscire ancora a darsi una costituzione condivisa da tutti. Ma già si impongono altri e non meno urgenti problemi di rapporti con l’esterno, come questo drammatico fenomeno degli immigrati. Non serve rivisitare la storia che ne ha conosciuto per secoli gli aspetti drammatici. Da sempre l’uomo si è spostato e fatalmente continuerà a spostarsi verso quei luoghi dove la sua sopravvivenza appare meno difficoltosa. Le Americhe sono nate dalle migrazioni europee. L’Europa stessa si è popolata con gente venuta per lo più dall’Est. Domani forse lo sarà da chi sta arrivando dal Sud. Non è da più di un decennio che l’Italia si è trasformata da terra di emigranti in terra di immigrati. Delle navi di ogni tipo che attraversavano il canale d’Otranto per arrembare le coste pugliesi, è ancora fresca di memoria. Oggi è la volta di un’ultima più grande migrazione, quella dall’Africa attraverso il canale di Sicilia. Dunque è vero che migliaia di disperati affrontano la traversata del Mediterraneo, addirittura salpando dalla Libia con mezzi assolutamente inadeguati. L’ultima carretta è andata alla deriva per due settimane lasciando sul suo percorso una scia di non meno di 70 cadaveri. Molte imbarcazioni non sono mai arrivate. È altrettanto vero, come molti testimoniano, che ancora di più sono le persone inghiottite da un altro mare, quello di sabbia, che questi disperati provenienti dal Corno d’Africa o dal Niger, debbono attraversare su automezzi sgangherati per raggiungere il Mediterraneo. Come pure è certo che il reclutamento, l’organizzazione (si fa per dire) e sicuramente l’esazione di forti somme, messi in atto per illudere prima, avviare con mezzi inadeguati e abbandonare poi al loro destino questi disgraziati, è opera di organizzazioni criminali per nulla contrastate dai governi dei paesi di provenienza. I nostri dirimpettai, poi, soprattutto la Libia, fanno di questa situazione un’arma di ricatto per ottenere denaro e attrezzature dall’Italia, senza attivarsi efficacemente per impedire il fenomeno. In questo quadro così negativo, alcuni elementi nuovi offrono un appiglio per arrivare, se non ad una soluzione, almeno ad una svolta. Non è pensabile, infatti, affrontare l’emergenza come se si trattasse soltanto di un problema di polizia di frontiera da risolvere con azioni di contrasto. Essa deve essere considerata invece come un’emergenza umanitaria dalle dimensioni e implicazioni internazionali che riguardano tutta l’Unione europea e le organizzazioni panafricane. È una grande sfida che anticipa scenari ineludibili nella realtà globalizzata che abbiamo noi stessi costruito. Deve essere dunque affrontata con una prospettiva e con forze globali.

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