Non mancare all’appuntamento

Accanto a Chiara Lubich negli ultimi anni, Anna Paula Meier ci racconta la fondatrice dei Focolari nella vita di tutti i giorni.
Chiara Anna Paula

Dal natio Bünzen, lindo paesino svizzero nel cantone di Argovia, a Fontem in Camerun, nel cuore della foresta equatoriale. Poi, per 22 anni, sino all’ultimo istante dell’esistenza terrena di Chiara Lubich, Anna Paula Meier ha abitato con lei, accompagnandola anche in tanti suoi viaggi.

Sempre più numerosi sono i visitatori che, da ogni parte del mondo, ora vogliono conoscere i luoghi della fondatrice dei Focolari, da Trento, sua città natale, a Rocca di Papa, sede centrale del movimento.

Incontro Anna Paula nella casa dove Chiara ha vissuto. «In tanti – mi dice – chiedono di visitare la sua abitazione, e la domanda che ci rivolgono di frequente è: “Come si svolgevano le sue giornate, cosa faceva nella vita di tutti i giorni?”». È lo stesso interrogativo che anch’io ho in cuore, e come me, penso, anche molti lettori».

 

Dunque, Anna Paula, dal Camerun, infermiera nell’ospedale di Fontem, ben noto in Africa per la cura della malattia del sonno, sei passata alla casa di Chiara. Te l’aspettavi?

«Ho lavorato per dodici anni in quell’ospedale. Sono stati per me anni costruttivi, che mi hanno arricchito interiormente. Sono venuta qui al Centro del movimento con Marilen Holzhauser, una focolarina dei primi tempi, che aveva contratto una malattia di origine virale. L’ho assistita per un anno, sino alla sua morte. Lo stesso giorno, una telefonata da parte di Chiara mi chiedeva di trasferirmi nel suo focolare. Questo, davvero, non me l’aspettavo: non mi sentivo adatta a starle accanto. Però davanti a lei spariva tutta la mia inadeguatezza, perché mi accoglieva così come ero, senza mai farmi sentire a disagio. Anzi, tante volte era lei a coprire i miei sbagli».

 

Parli di una vita di famiglia unita nell’amore vicendevole. Ma in che modo ciò si concretizzava?

«Ho avuto modo di vivere momenti indimenticabili, ad esempio quando mi capitava di accompagnare Chiara in macchina a Roma, o per una breve passeggiata nei Castelli romani. Ho quindi toccato con mano come lei, momento per momento, incarnava il suo ideale di vita. Prima di iniziare qualsiasi viaggio era solita rivolgerci un cenno d’intesa in modo che tutto scorresse in un’atmosfera di serenità. Talvolta stava in silenzio a guardare il paesaggio, leggeva la corrispondenza; oppure si facevano giochi di società, si componevano sciarade e quiz. Preparava quei giochi ricreativi per le ricorrenze in cui sarebbero venuti a pranzo i suoi parenti o i focolarini, proprio per stare insieme gioiosamente».

 

Da una famiglia così estesa, arrivavano in continuazione notizie, sia liete che dolorose. Ricordi episodi particolari?

«Era l’ultimo dell’anno 2001 e, ricordo, percorrevamo un cavalcavia sulla via Aurelia. Una telefonata avvertì Chiara che Enzo Fondi, tra i primi focolarini, era stato colpito da un infarto. La sentii mormorare: “Non è possibile, è troppo…!”. Nel giro di pochi mesi, infatti, ci avevano lasciato Antonio Petrilli e Guglielmo Boselli. Poi, dopo un silenzio che pareva durare un’eternità: “Tutto deve andare avanti… Dobbiamo credere all’amore di Dio”. Un altro fatto, accaduto l’11 agosto, festa di santa Chiara, a Mollens, in Svizzera. Ci trovavamo in macchina. Squillò il telefono. Era mons. Stanislao Dziwisz, allora segretario di Giovanni Paolo II: “Pronto? Le passo sua santità”. Indescrivibile la gioia per quella sorpresa: niente di meno che gli auguri personali del papa!».

 

Cosa significava per Chiara credere all’amore di Dio?

«Lei scorgeva i segni del suo amore sotto ogni avvenimento. Per esempio, al ritorno a casa dopo un incontro al Centro Mariapoli di Castelgandolfo, capitava di trovare l’ingresso colmo di doni, fiori, dolci, arrivati da tutto il mondo. Faceva festa, naturalmente, ma sfruttava quei regali per giungere a tanti: non appena qualcosa arrivava, subito iniziava a distribuire.

«Ricordo che, una volta, occorreva una somma notevole per una focolarina che doveva subire un’operazione molto delicata. Non c’erano i mezzi, e si rivolgevano a Chiara, che rispose: “Fatela ricoverare ugualmente, fate l’intervento, ci penserà la Provvidenza”. Quel giorno stesso arrivò la somma necessaria. Fatti simili accadevano di frequente.  

«Qualche anno fa, dovendo cambiare l’automobile, scegliemmo una Volvo ad un prezzo conveniente, una macchina robusta. Quando Chiara la vide, disse: “Io su questa macchina non andrò mai. Noi siamo poveri”. Era Giovedì santo e dovevamo aspettare dopo Pasqua per riportarla al concessionario. Furono Pasquale Foresi ed altri focolarini a convincerla: “Ma Chiara, tu fai lunghi viaggi, è un’auto sicura, non darla via, anche per la nostra tranquillità”. E lei, solo per amore loro, l’ha tenuta. Dopo la sua morte, la prima cosa che abbiamo fatto è stata di venderla. Quante volte lei, incontrando qualcuno, si è scusata di avere un’auto di marca, perché non era secondo il suo stile».  

 

Lei apprezzava anche tutti i mezzi di comunicazione.

«Sì, diceva sempre che le tecnologie della comunicazione servono a far progredire la conoscenza reciproca, e quindi la fraternità tra i popoli. Quando uscirono i primi telefonini, per lei erano una provvidenza, perché non doveva aspettare di arrivare a casa per trasmettere qualche notizia che nel frattempo le era giunta. C’era in lei una vera ansia di comunicare.

«L’Esa – l’Ente spaziale europeo – le fece dono di un’antenna parabolica, rivelatasi molto utile per le conferenze telefoniche in contemporanea nel mondo. Siccome non sapevamo dove collocarla, Chiara suggerì: “Mettetela nel giardino: è un monumento alla comunione universale”.

«Così anche per una macchina fotografica digitale. Ne aveva ricevuta una in dono, e me l’affidò dicendomi di imparare il programma, prima di fare un viaggio in India. Così potemmo mandare via Internet le foto da Coimbatore, una città sino allora sconosciuta per noi. Si aprì là la strada al dialogo con gli indù.

«Nello stesso tempo mi colpiva profondamente la riservatezza di Chiara, il rispetto che aveva per le persone. Quante volte ci faceva scendere dalla macchina per poter parlare al telefonino con qualcuno! E quando ciò non era possibile, diceva: “Guarda che è proprio segreto”. C’era in lei la massima apertura e la massima discrezione».  

 

Tu sei stata accanto a Chiara anche come infermiera…

«Erano gli ultimi due o tre mesi. Ricordo che un giorno disse di voler rileggere il Vangelo, per vedere se l’avevamo vissuto tutto, se c’era qualcosa ancora da fare. La vita della Parola era veramente tutta la sua vita. La vedevo col Vangelo in mano a casa, seduta in poltrona; e quando uscivamo in macchina, ci chiedeva di prenderne uno, quello di Marco, o di Matteo, di Luca o di Giovanni. Sempre in macchina, ad un certo punto, esclamò con gioia: “Mi sembra che fin dove l’abbiamo letto, l’abbiamo proprio messo in pratica”.

«Dopo la sua morte, abbiamo trovato tra le pagine del Vangelo di Matteo un suo appunto, che forse svela qualcosa di ciò che è stato l’ultimo periodo: “Non mancare all’appuntamento”. Con Gesù? Con la Parola? Col prossimo? Non so».

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