Natale 1941

Arrivò con la sua poesia, la sua speranza e il suo messaggio. Anche in quel triste inverno di guerra.
Illustrazioni

Erano tempi duri perché c’era la guerra e siccome quando c’è la guerra, a parte pochi ricchi, tutti gli altri sono poveri, anche il Natale era un Natale povero. Però noi bambini lo aspettavamo pieni di speranze e quando arrivava bastavano piccoli, semplici doni per farci contenti.
Si racconta di qualcuno che riceveva soltanto un sacchettino contenente una mela, un mandarino, tre noci e un cavallino di legno lungo dieci centimetri, se si trattava di un maschietto; oppure una bambolina di pezza, se si trattava di una bambina.

Per noi il Natale non era proprio così povero, ma ci mancava poco.  Andavamo in centro a vedere le meravigliose vetrine dei negozi di giocattoli, ma chissà come mai a noi arrivava sì qualche balocco, ma molto diverso da quelli che avevamo visto e ammirato nelle vetrine.

 

Il fatto è che avevamo una nonna con le mani d’oro, cosicché nessuna bambina aveva bambole vestite come quelle della mia sorellina. Magari si trattava della bambola del Natale scorso, ma con questi vestiti nuovi era una meraviglia che poteva essere invidiata anche da una bambina ricca.
Quanto al mio papà, aveva un tavolino in un angolo del tinello tutto ingombro di piccoli curiosi marchingegni e di pezzi di legno che sembrava la bottega di Geppetto. Ed era così ingegnoso che Gesù Bambino mi portava balocchi assolutamente diversi da tutti quelli in commercio e che i miei compagni ricevevano.

 Per esempio: il secondo anno di guerra, la mattina di Natale mi svegliai presto con l’agitazione e la curiosità che tutti noi ben conosciamo, e trovai sotto il presepio un bellissimo autocarro. Tutto di legno, dipinto di rosso, le ruote nere, lo sportello che si apriva e dentro c’era il sedile e il volante (che però non azionava lo sterzo. Amen: non si può chiedere troppo alla vita!). Mentre ero lì che me lo rigiravo tra le mani, lo voltai a “pancia in su” e notai stampigliato sul fondo, che non era verniciato, il marchio Cirio uguale uguale a quello che avevo visto su una cassetta nel negozio dei generi alimentari. «È che in tempo di guerra si fa economia su tutto – disse mio padre –. L’avranno fabbricato con legno di ricupero…!».

«E già!», risposi. Incominciai a giocare tutto contento senza pensarci più.

Ma si sa come vanno le cose: i bambini amano le novità e basta la scoperta di un gioco nuovo per dimenticare quello vecchio. Così l’autocarro rosso per un po’ di tempo giacque dimenticato da qualche parte della casa e infine, con i giochi all’aperto dell’estate, lo persi di vista e lo dimenticai.

Incuranti della guerra, le stagioni facevano il loro corso e anche in quel triste inverno arrivò il Natale con la sua poesia, la sua speranza e il suo messaggio, e qualche dono.

E che dono, per me!

Una cosa da bambino ricco: un mulino a vento con una piccola manovella che azionava le pale. Una meraviglia. Ma come l’anno prima mi aveva sorpreso l’autocarro così diverso da quelli che si vedevano nelle vetrine, ora mi sorprendeva il fatto che in tutta la città non si sarebbe trovato niente di simile al mio splendido mulino. Si componeva di parti staccabili ingegnosamente assemblate e mentre le esaminavo incuriosito, ecco apparire in una parte non verniciata una misteriosa parola: “Rio”. E sotto il tetto, capovolgendolo, un’altra parola: “Ci”.

“Cirio”, insomma, e subito mi ricordai dell’autocarro dell’anno scorso.

Mi venne un sospetto: «Papà, dov’è finito l’autocarro che Gesù Bambino mi ha portato l’anno scorso?».

Papà si mise a ridere e, con un’aria tra colpevole e birichina, esclamò: «Eccolo qui, ce l’hai tra le mani! Non sembra un po’ un mulino?».

Il sospetto era giusto: mollai tutto e balzai al collo di papà.
Il Natale è fatto anche di queste cose.

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