Napoli, un faro di pace che non si spegne

Come continua l’impegno del movimento per la pace ad oltre un mese dalla marcia che ha chiesto, assieme al vescovo Battaglia, di impedire l’attracco di navi con carichi nucleari nel porto della città? A colloquio con Filippo Severino, referente Pax Christi Napoli
Porto di Napoli marcia della pace 19 novembre 2022. Foto Carlo Cefaloni
Ap La Presse Archivio Storico
porta aerei statunitense Theodore Roosevelt
ancorata nel porto di Napoli

Napoli e le navi da guerra. Si deve all’impegno di Pax Christi Napoli l’evento dello scorso 19 novembre con la marcia dal porto verso il centro storico della città, con arrivo nella cattedrale dove il vescovo Battaglia ha espresso una forte condivisione dell’istanza dell’iniziativa racchiudibile nello slogan “porti aperti ai migranti e chiusi alle armi”.

Ne parliamo dopo un mese da qual momento pubblico con Filippo Severino, referente partenopeo del movimento cattolico pax Christi, per cercare di capire l’incidenza reale di tali manifestazioni. Filippo si espone senza riserve nel suo impegno. Si è recato anche in Ucraina, nella città di Mykolaiv con la carovana stopthewarnow per portare aiuti alla popolazione civile, perché – ci dice- «le cose si possono “mandare” mentre le persone si devono “incontrare”. E nell’incontro ci si sente accolti e può nascere un approccio più umano verso le vicende sconvolgenti della guerra».

Di solito, invece, le marce della pace scontano il pregiudizio di essere retoriche e generiche. Quella di Napoli come quella di Genova del 2 aprile sono state, invece, molto precise nel chiedere il mancato transito di carichi di armi a Genova e il divieto di attracco nel porto di Napoli di navi e sommergibili nucleari o che trasportano armi nucleari.

Come si intende fare una volta che la capitaneria di porto deciderà probabilmente di non rispondere o di affermare la mancata competenza nel merito?
Al momento effettivamente l’Autorità portuale non ha dato alcuna risposta al nostro appello. Ma, peggio ancora, recentemente è approdata nuovamente a Napoli una portaerei nucleare statunitense, la “George H. W. Bush”. D’altra parte siamo anche consapevoli che la stessa Capitaneria ha scarso margine d’intervento a fronte di scelte che riguardano il Governo italiano e gli accordi internazionali.

Archivio Ap, la nave d’assalto anfiibia Usa

E allora perché avete promosso una manifestazione che partisse dal porto e che ponesse una tale richiesta?
Innanzitutto perché ciascuno ha una sua parte di responsabilità. Ce l’hanno i politici con le scelte legislative e di governo, ma ce l’hanno anche i cittadini che, maturando consapevolezza e cittadinanza attiva, possono rivendicare che venga data concretezza alle proprie aspettative di pace e giustizia sociale. Ce l’ha l’Amministrazione locale che deve contrastare pericoli ed assicurare benessere agli abitanti del proprio Comune e ce l’ha la Capitaneria di Porto che, comunque, è tenuta a garantire sicurezza nelle acque territoriali.

Quindi in cosa consiste il senso della proposta?
Costituisce una pressione popolare sulle Istituzioni, o meglio sugli uomini che ne fanno parte e che hanno il potere perché delegato a loro da cittadini sovrani. Ovviamente, quella manifestazione ha valore e può fruttificare in quanto momento di un percorso che deve avere andare avanti. Subito dopo la marcia di novembre abbiamo ad esempio promosso un’iniziativa nelle scuole superiori che ha coinvolto centinaia di studenti.

Secondo le simulazioni realistiche di conflitto nucleare, Napoli, Pisa, oltre alle basi con bombe nucleari di Ghedi e Aviano, sono i primi obiettivi di eventuali attacchi militari. Non è un controsenso disarmare un presidio di difesa come i sottomarini Usa pronti a rispondere ad attacchi nemici?
Al contrario, dico che non è un controsenso ma un motivo di maggiore sicurezza per la popolazione locale. È logico che un eventuale nemico vada a colpire proprio lì dove può esserci un pericolo di ritorsione o contrattacco e, dunque, proprio dove ci sono armi nucleari e missili la cui gittata può giungere sul proprio territorio. Tali armi, inoltre, per loro natura non sono sistemi di difesa e, dunque, appaiono intrinsecamente immorali. Ce lo ricorda lucidamente don Lorenzo Milani nella sua lettera ai giudici del processo in cui era imputato di apologia di reato per aver difeso gli obiettori di coscienza al servizio militare.

Cosa diceva don Milani?
Una cosa molto chiara che merita citare letteralmente: «È noto che l’unica “difesa” possibile in una guerra di missili atomici sarà di sparare circa 20 minuti prima dell'”aggressore”. Ma in lingua italiana lo sparare prima si chiama aggressione e non difesa. Oppure immaginiamo uno Stato onestissimo che per sua “difesa” spari 20 minuti dopo. Cioè che sparino i suoi sommergibili unici superstiti d’un Paese ormai cancellato dalla geografia. Ma in lingua italiana questo si chiama vendetta non difesa».

Durante la manifestazione è stata evocato il fatto che Napoli è città medaglia d’oro alla Resistenza per la rivolta contro l’esercito tedesco. Non è una contraddizione con la posizione che ha assunto Pax Christi di essere contraria alla fornitura di armi all’Ucraina aggredita dalle truppe di Putin?
Come sostenere una popolazione aggredita?  Una risposta risolutiva non ce l’ho. Perché le guerre vanno impedite prima che scoppino e tanto si sarebbe potuto fare anche in Ucraina, dove il conflitto era già in atto da anni e i segnali della possibile invasione russa avrebbero richiesto l’intervento preventivo della comunità internazionale. Tuttavia, una volta scoppiata la guerra, cosa fare? Penso che mandare armi sia solo gettare ulteriore benzina su un fuoco devastante, che non allontana la pace e che, prolungando il conflitto armato, genera solo distruzione, sofferenze e innumerevoli vittime, anche e soprattutto in quella popolazione che si asserisce di voler difendere.

Allora, resta la domanda: Che fare?
Credo che l’unica strada resti quella della mediazione: gli stati e le istituzioni internazionali possono e devono distinguere tra oppresso e oppressore, tra chi è invaso e chi invade, ma con altrettanta energia dovrebbero mettere in atto ogni forma di diplomazia che porti innanzitutto al “cessate il fuoco” e che ricostruisca un dialogo per la risoluzione del conflitto in modo alternativo a quello delle armi. In Ucraina, e allo stato attuale lo affermano adesso perfino alti esponenti militari, l’attuale conflitto è destinato a durare ancora a lungo se non si percorrono strade diverse da quelle delle armi.Pacifisti e nonviolenti sostengono che mai la guerra può essere una soluzione, ma che sempre acuisce il problema, con l’aggiunta di innumerevoli atrocità e sofferenze.

Coro della chiesa battista in cattedrale a Napoli 19 11 2022 foto Carlo Cefaloni

Che direzione prendere a tuo parere?
Don Tonino Bello affermava che «nei bivi del cammino servono indicazioni precise: no alla violenza; non solo sui rettilinei (quando la pace è facile), ma agli incroci pericolosi (come ora nella crisi del Golfo) [“come ora nella guerra in Ucraina” avrebbe detto oggi]; no alla guerra. Alzare questo segnale senza esitazione. Non ammettere eccezioni al no alla guerra». Anche perché le vere motivazioni per cui scoppiano le guerre, motivazioni sempre da smascherare e contrastare, non sono la tutela e il bene dei popoli bensì il potere e l’arricchimento, di pochi a danno di tanti.  Basti pensare ai cinici interessi dell’industria bellica. Per opporsi alla guerra bisogna, perciò, impegnarsi anche e soprattutto per un cambiamento dell’economia, per l’attuazione di un’economia “disarmata”.

Che tipo di interlocuzione esiste con il sindaco di Napoli che pure è stato chiamato in causa sull’applicazione della normativa locale che vieta la circolazione dei mezzi nucleari nel porto della città?
Al sindaco di Napoli abbiamo fatto pervenire l’appello in cui si chiedevano tre cose: di diffondere ed attuare, per un’efficace protezione civile, il Piano di emergenza esterno per incidenti nucleari al porto, Piano approvato nel 2006 dalla Prefettura di Napoli, ma mai divulgato alla cittadinanza; di aderire, con apposita delibera, all’appello “Italia, ripensaci!”, affinché anche il nostro Paese sottoscriva il TPNW (Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari); promuovere a livello nazionale una progressiva riduzione della spesa militare a vantaggio della spesa sociale.

Come intendete proseguire in questo percorso?
Chiediamo di incontrare il sindaco per insistere, dandone ragione, su tali proposte e chiedere la convocazione di una seduta del Consiglio comunale aperta alla cittadinanza e ad esponenti del mondo pacifista per una delibera di adesione dell’Amministrazione cittadina alla Campagna “Italia ripensaci”. Contiamo di andare avanti con le decine di realtà associative religiose e della società civile che, a Napoli, hanno partecipato a “Fari di Pace”. Perché la pace è impegno comune, trasversale, ecumenico, interculturale da mettere in atto proprio nei momenti difficili della storia.

Un segnale importante in città è la posizione presa senza misura dell’arcivescovo Mimmo Battaglia. Cosa senti di sottolineare come traccia di impegno dal suo intervento del 19 novembre?
In cattedrale don Mimmo ha richiamato il magistero del Papa offrendo tre punti chiari: «Primo, le cose cambiano se le cambiamo insieme. Secondo, dobbiamo camminare non solo un giorno all’anno ma ogni giorno e ogni ora della nostra vita. Terzo, la pace presuppone la giustizia ma la giustizia oggi deve essere anche giustizia ambientale. (…) Napoli oggi accende un faro di pace. Che questa luce illumini le coscienze di quanti sono offuscati dalla coltre tenebrosa della violenza e dell’odio. Che questo faro illumini i percorsi di incontro di quanti vagano nel buio della contrapposizione armata. Che questa pace si innalzi fino al cielo e ricopra la faccia della terra!».

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