Muos. Perchè la Sicilia?

Sono i grandi itneressi industriali a guidare i conflitti mondiali? E qual è il ruolo degli Usa? Terza e ultima parte dell'intervista al generale Fabio Mini
pentagono

Pubblichiamo la terza ed ultima parte dell'intervista al generale Fabio Mini, con il quale abbiamo parlato della base Muos in Sicilia e delle basi militari degli Stati Uniti nel nostro Paese.

Introdotta l'analisi del contesto generale, arriviamo alla domanda fondamentale: perché il Muos è stato messo proprio in Sicilia?
«Certamente il Muos si poteva costruire da un'altra parte, ma il costo sarebbe lievitato di qualche milione di dollari, un’inezia per il bilancio della difesa statunitense, e l’amministrazione pubblica italiana non ha espresso alcuna obiezione, tanto più che l’operazione è rientrata in un adeguamento tecnologico di un impianto già presente da anni e quindi in linea con il trattato vigente sulle basi. Resta comprensibile il timore degli abitanti del posto per eventuali attacchi provenienti non da altri Stati, non esistono realtà statuali in grado di minacciare le basi Usa, ma da organizzazioni terroristiche. Gli “stati canaglia” sono tutte invenzioni che cambiano a seconda delle strategie».

In che senso?
«Basta osservare i movimenti degli interessi delle grandi industrie, con l’esercito dei loro mercenari, basta vedere il loro spostamento geografico per aspettarsi il deflagrare di nuovi conflitti nelle aree interessate con il sorgere di formazioni terroristiche che legittimano nuovi interventi militari».

Alla radice non è stato decisivo il nuovo concetto di difesa che è stato acquisito anche in Italia senza un vero dibattito, e cioè la necessità per i nostri eserciti di intervenire in ogni luogo dove gli interessi comuni vengono minacciati?
«Se ci consideriamo parte di un’alleanza, l’interesse comune deve essere perseguito con il concorso di tutti. Ma questo non è il nostro caso perché da oltre 60 anni, nel complesso, Nato o meno, i Paesi stanno perseguendo gli interessi di una sola parte, e cioè degli Usa, con evidenti conseguenze sulla sovranità degli altri Stati ai quali va l’onere di dover inventare continuamente delle giustificazioni per sempre nuove avventure. Con una visione più equilibrata degli interessi comuni, Bush non avrebbe compiuto le operazioni in Iraq e in Afghanistan nel modo che conosciamo e che ha provocato nuove e persistenti instabilità. Dobbiamo rivedere il significato stesso di interesse nazionale e internazionale di sicurezza e stabilità, che non può coincidere con nuove guerre e nuove instabilità. Non è affatto semplice e risolutivo cambiare un sistema che si conosce con un nuovo assetto che si ignora del tutto. Bisognava pensarci due volte prima di passare da Mubarak ai “Fratelli musulmani” che hanno una strategia di egemonia su tutto il mondo arabo. E così si può dire per tutta la strategia orientata a rimuovere gli autocrati laici, come il caso della Siria, senza avere l’alternativa di un’opposizione altrettanto laica e con il rischio dello sfascio e sofferenze indicibili per la popolazione civile. Lo stesso sta avvenendo in Libia».

Proprio parlando di interessi nazionali e strategie belliche, non è paradossale che l’Italia abbia partecipato alle operazioni di combattimento in Libia senza che l’opinione pubblica, tranne poche testate giornalistiche come Città Nuova, avvertisse la partecipazione del Paese ad una guerra che ha visto gli stessi nostri vertici militari molto dubbiosi?
«Sembra, in effetti, prevalere l’idea di una nostra pretesa estraneità ad eventi che ci vedono coinvolti direttamente, quasi fossimo dei testimoni inconsapevoli e invece siamo partecipi di questa fase di instabilità di un pianeta che non ha trovato il suo equilibrio. L’intervento nei singoli conflitti locali sta provocando una serie di ferite che stanno dissanguando il mondo senza operare cambiamenti duraturi».

Ma negli Usa non esiste un filone di pensiero critico nei confronti dell’attuale strategia globale?
«Esiste certamente una parte orientata a cambiare il tipo di intervento nel mondo riducendo le spese militari essenzialmente per contenere e risparmiare sui costi. Allo stesso tempo emerge anche una posizione critica che chiede di rivedere lo strumento militare nel complesso di una visione politica alternativa. È del tutto evidente che una posizione del genere, anche quando è sostenuta dal presidente degli Usa, deve scontrarsi con i poteri prevalenti delle grandi industrie. Si tratta di enormi conglomerati che non obbediscono più a nessuno. Si può dire che non hanno più un Paese di riferimento».  

  

 

 

 

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