Mozione Assisi oltre l’indifferenza

Cambiano i governi ma interessi prevalenti impediscono all’ Italia di fermare il traffico di bombe verso la guerra in Yemen. Dalle città la richiesta di una svolta di coscienza politica con appuntamento il 28 marzo ad Assisi

La popolare trasmissione de “Le Iene” di Italia1 ha parlato nuovamente del caso delle bombe Mk83 prodotte in Italia per essere vendute all’Arabia Saudita che le usa per bombardare lo Yemen.

Il canale di Mediaset dedicato ai giovani usa uno stile immediato e facilmente comprensibile, associando immagini tragiche alle dichiarazioni contraddittorie di politici e ministri, lasciando, tuttavia, un senso di amarezza e di impotenza. La notizia non si può ignorare. Per chi vuole, sul sito del tg3 si trovano i servizi approfonditi di Nico Piro che dà conto della reazione che cresce nella società civile, come le mozioni approvate da alcune città italiane a cominciare da Assisi.

Le nostre responsabilità
Per cercare di dare una risposta concreta alle nostre responsabilità sulla questione della produzione di armi vendute ai Paesi in guerra, si è svolto il primo marzo un tentativo di confronto pacato e ragionato con esponenti del governo e del mondo delle industrie degli armamenti e della finanza. Significativa la presenza, tra i promotori della giornata seminariale tenutasi presso l’aula dei gruppi parlamentari della Camera, della Federazione delle chiese evangeliche assieme all’Ufficio nazionale della pastorale sociale della Conferenza episcopale italiana. Una presa di posizione comune che espone le chiese cristiane su un fronte troppo volte non affrontato apertamente per eccesso di prudenza e di realismo politico. Importante, in tal senso, il legame emerso dagli interventi di realtà finanziarie tedesche riconducibili alle confessioni cattoliche e protestanti.

Come è noto, la proprietà della Rwm Italia, che produce gli ordigni bellici destinati alla coalizione saudita, è riconducibile alla multinazionale Rheinmetall Defence che ha sede in Germania. Negli ultimi anni è cresciuta, infatti, la consapevolezza della possibilità di esercitare un criterio etico nell’uso dei capitali, almeno decidendo di non finanziare in qualche modo le filiere di armi. Nel 2019 si celebra il ventennale di Banca etica, nata in Italia grazie ad una vasta e capillare azione associativa.

Realismo politico e declino economico
Di fatto il primo marzo, seppur inviati, non si sono potute, invece, ascoltare le voci dei rappresentanti dell’Associazione bancaria italiana e di Alessandro Profumo, il banchiere chiamato da settembre 2017 a ricoprire la carica di amministratore delegato di Leonardo Finmeccanica, la grande società controllata dallo Stato italiano, in prima fila nella produzione dei sistemi d’arma. L’azienda italiana, ad esempio, è la capofila della commessa di 28 caccia Eurofigter venduti di recente al Kuwait, Paese che partecipa alla coalizione militare impegnata in Yemen sotto la guida saudita.

Da apprezzare perciò la volontà di confronto espressa da Guido Crosetto, fondatore, con Giorgia Meloni, del partito Fratelli D’Italia, nonché presidente dell’Aiad,  Federazione delle aziende italiane per l’aerospazio, la difesa e la sicurezza. In tale veste, il parlamentare di Cuneo ha visitato Idex, la recente fiera internazionale delle armi svoltasi negli Emirati arabi uniti, e si appresta a organizzare la presenza italiana alla più grande esposizione in programma il prossimo anno in Arabia Saudita.  Parliamo di piazze decisive, assieme al mercato indiano, per i maggiori produttori bellici, in forte competizione tra loro.

Crosetto ha rivelato i fattori di crisi di un settore che vede ormai come prevalente il trasferimento di tecnologia e non dei prodotti. I singoli Paesi, anche quelli del golfo Persico, hanno compreso l’importanza di dotarsi di una industria propria. Ci si siede ai tavoli che contano a livello internazionale, ha ribadito il presidente dell’Aiad, in base alla capacità produttiva nel campo della difesa. L’Italia, è bene ricordarlo, risulta tra i primi 10 esportatori di armi a livello mondiale, e anche la nostra Leonardo rientra tra le prime 10 imprese di un settore che vede la Cina in grande crescita.

Le oggettive osservazioni di Crosetto dovrebbero aprire una riflessione sulle strategie della politica industriale italiana. A cominciare, ad esempio, dalla dismissione avvenuta, a cominciare dalla fine degli anni ’80, di imprese di punta nel campo civile, ad esempio il trasporto ferroviario, che ha segnato il declino della nostra economia. La forte competizione interna tra i diversi Paesi europei rappresenta, poi, un forte ostacolo alla elaborazione di una strategia comune nel campo dell’industria e della difesa, come dimostra, in maniera eclatante, la rivalità italo francese sul futuro della Libia.

Cambiare la legge 185/90 ?
Molto interessante, nell’incontro del primo marzo, il tentativo di dialogo con Manlio Di Stefano, sottosegretario agli Esteri, che rappresenta il M5S, fortemente impegnato nella scorsa legislatura sulla questione delle bombe Rwm vendute ai sauditi. Il parlamentare siciliano proviene dal mondo del volontariato internazionale e riveste un ruolo importante all’interno dell’Associazione Rousseau presieduta da Davide Casaleggio. La linea assunta dai pentastellati arrivati al governo è quella di ritenere decisiva una riforma della legge 185/90 per rendere operativo il divieto, espresso in quel testo, di invio di armi ai Paesi in guerra. Tesi contestata dal mondo associativo per la pace che ritiene già direttamente prescrittivo il testo e ribadisce, tra l’altro, l’esistenza di numerose risoluzioni del Parlamento europeo che invitano i Paesi membri ad interrompere immediatamente la fornitura di armi a tutte le parti coinvolte nel disastro umanitario in Yemen.

Di Stefano non ci sta a passare per guerrafondaio, ma rivendica l’azione ad ampio spettro del M5S sulle linee di politica energetica e reddito di cittadinanza che, coniugate assieme, permetterebbero di rimuovere le cause di molti conflitti e accompagnare il cambiamento produttivo, sostenendo i lavoratori coinvolti nei processi di riconversione. Senza scordare, ribadisce il sottosegretario, la capacità dell’esecutivo italiano di aver evitato il sostegno a direttive di politica estera favorevoli ad alimentare il conflitto in Venezuela.

I rappresentanti dell’opposizione intervenuti all’incontro del primo marzo hanno ribadito con Stefano Fassina, di Leu, la posizione dello stop immediato alle bombe, già proposto nel 2017 da Sinistra italiana, mentre Stefano Ceccanti per il Pd, ha riprodotto le tesi della sua collega Lia Quartapelle che, nella precedente legislatura, fece passare una mozione umanitaria sullo Yemen che non faceva cenno ad alcuna cessazione immediata di invio di armi all’Arabia Saudita.

Immobilismo politico e la scelta di Assisi
Allo stato attuale resta, dunque, sullo sfondo una profonda contraddizione. Da una parte ci sono le dichiarazioni formali del ministro della Difesa Elisabetta Trenta, e del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che si sono detti contrari alla  vendita di armi destinate alla guerra in Yemen. Dall’altra abbiamo la posizione opposta del leghista Guglielmo Picchi, altro sottosegretario agli Esteri, che ribadisce la competenza della materia al suo ministero e propone, con il centro studi Machiavelli, la necessità di rinsaldare i rapporti di fornitura di armi con l’Arabia Saudita.

Interpellato direttamente su tale contrasto, il sottosegretario Di Stefano si è detto convinto del prevalere della posizione della ministro della Difesa di nomina pentastellata. Ricordiamo che Elisabetta Trenta è stata scelta dal M5S per ricoprire quel ruolo provenendo dalla direzione del Master in Intelligence and Security dell’Università Link Campus presieduta da Vincenzo Scotti, ministro della Dc e poi dell’area di centrodestra.

È chiaro che di fronte al disastro in corso nello Yemen, dove la popolazione civile è sotto assedio per guerra e fame, non si possono attendere gli equilibri interni al governo italiano per decidere di smettere la fornitura di bombe all’Arabia saudita.

È quello che hanno compreso alcune città, che hanno approvato nei propri consigli comunali il testo della mozione approvata per prima ad Assisi per chiedere l’impegno delle istituzioni ad applicare la legge 185/90, fermare l’invio di bombe e investire seriamente per la riconversione economica del territorio sardo, dove avviene quella produzione bellica.

Una mozione dal basso, quasi sempre con voto unanime, che parte dalla coscienza personale per cercare di cambiare il corso degli eventi. Che, poi, è il senso ultimo della politica. Per il 28 marzo è previsto un primo appuntamento nella città di san Francesco tra i rappresentanti delle città che hanno approvato la “mozione Assisi”: finora Cagliari, Bologna, Verona, Roma, Firenze, Porto Mantovano, Barletta e Montecatini. Incontro aperto ai rappresentanti di altri comuni e realtà che non vogliono restare indifferenti.

 

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