Morto Borrelli, capo del pool Mani Pulite

Si è spento a 89 anni il protagonista di un capitolo della storia italiana. Da procuratore capo di Milano guidò l'inchiesta Tangentopoli, difendendo il principio costituzionale dell'indipendenza della magistratura. Lunedì la camera ardente al tribunale di Milano

«Resistere, resistere, resistere, come su una irrinunciabile linea del Piave». Il tratto nobile e gentile di Francesco Saverio Borrelli tradiva a malapena la forza coriacea di un uomo che, per tutta la sua vita, è stato strenuo difensore della democrazia, quando pronunciava queste parole, nel 2002. Il magistrato di Mani Pulite stava per andare in pensione chiudendo così i suoi 47 anni di carriera «con la toga».

La memoria riporta agli anni destinati a cambiare l’Italia: era il 1992, l’Italia, ormai da tempo, aveva messo in discussione il sistema del parlamentarismo perfetto. Si usciva dalle stagioni del centrosinistra, dal Caf (Craxi-Andreotti-Forlani), con Craxi ago della bilancia di molti degli ultimi governi della Prima Repubblica. La crisi economica non era ancora arrivata e lo scandalo più grosso che aveva attraversato l’Italia era il famoso “scandalo Lockeed”, con delle tangenti legate all’acquisto di aerei militari per le forze armate italiane. Le cronache dei giornali ne parlarono per anni.

Era il 17 febbraio del 1992 quando il sostituto procuratore di Milano, Antonio Di Pietro, chiede ed ottenne l’arresto di Mario Chiesa, uno degli esponenti di spicco del Psi milanese (erano gli anni dei sindaci socialisti Tognoli e Pillitteri), colto sul fatto mentre intascava una tangente di 7 milioni e mentre cercava, senza riuscirci, di disfarsi di un’altra mazzetta di 37 milioni. L’inchiesta denominata Mani Pulite, che prese le mosse da quell’arresto, finì per coinvolgere presto ampi pezzi del mondo politico e dell’imprenditoria. Seguirono gli arresti di politici e di imprenditori e, in alcuni casi, anche dei suicidi eccellenti, di chi non resse il peso della vergogna per il crollo improvviso del suo impero economico o del suo potere politico.

3 novembre 1995. Da sin., i magistrati della procura di Milano Francesco Greco, Francesco Saverio Borrelli, Gherardo Colombo e Ilda Boccassini.
3 novembre 1995. Da sin., i magistrati della procura di Milano Francesco Greco, Francesco Saverio Borrelli, Gherardo Colombo e Ilda Boccassini.

Nella Procura di Milano nasceva il pool Mani Pulite, Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, poi anche Armando Spataro, Ilda Boccassini e Francesco Greco. A coordinarlo e a guidarlo era il procuratore della Repubblica Francesco Saverio Borrelli. Con lui operava il suo vice, Gerardo Ambrosio, destinato poi a succedergli alla guida della procura meneghina quando Borrelli assumerà l’incarico di Procuratore generale presso la Corte d’Appello. Sempre nell’ombra quando erano i suoi pm ad avviare l’azione penale, sempre in prima fila quando serviva difendere la bontà del loro operato, ma anche con la presenza in aula per sostenere l’accusa in alcuni processi importanti

Una foto d'archivio di Antonio Di Pietro e Francesco Saverio Borrelli insieme all'epoca di Mani Pulite.
Una foto d’archivio di Antonio Di Pietro e Francesco Saverio Borrelli insieme all’epoca di Mani Pulite.

Furono gli anni del consenso crescente attorno all’operato del “pool”: l’Italia si indignava contro la scoperta di sempre nuove corruttele, l’azione dei magistrati sembrava un toccasana per salvare la democrazia italiana. Che coinvolsero tutti i principali partiti italiani (compresi Dc e Pci) e soprattutto gli esponenti di spicco dell’amministrazione dei partiti, pur se con diversi livelli di responsabilità. Gli anni di Mani Pulite segnarono la storia del Paese, ma si dovette presto fare i conti con una nuova stagione: quella delle numerose “leggi ad personam”. Dapprima il decreto Conso, che tentava di depenalizzare alcuni reati e che non andò in porto, poi il decreto Biondi, che impedì il carcere per i reati contro la pubblica amministrazione ed altri. L’elenco si allungò negli anni successivi rendendo via via più difficile l’azione dei magistrati che devono perseguire i reati contro la pubblica amministrazione, anche se oggi i nuovi sistemi d’indagine e soprattutto le intercettazioni consentono di fare cose prima impensabili.

Venne dunque la lunga stagione di Silvio Berlusconi e l’onda di consenso del Paese nei confronti dei magistrati mutò. I politici, nell’immaginario collettivo, divennero vittime, alcune leggi vennero definite «liberticide», si parlò di un potere politico dei magistrati teso a condizionare e a delegittimare il potere politico, a mutare gli equilibri politici del Paese.

Qui la storia ci porterebbe troppo avanti, fino agli anni più recenti. Anni difficili, che l’Italia ha attraversato tra mille contraddizioni, spesso con un’onda popolare che ha sposato le mode, i trend del momento.

Borrelli, lasciata la magistratura, pronunciò un discorso passato alla storia. Quel triplice «Resistere, resistere, resistere» è rimasto una pietra miliare. Borrelli sapeva che chi attacca il lavoro dei magistrati vuole minare la democrazia e vuole garantire spazi aperti per la degenerazione dell’azione politica e amministrativa. Mai avrebbe avallato la corruttela, nemmeno quando questa – ed è accaduto anche negli anni a seguire – ha intaccato persino i magistrati finiti anch’essi nelle maglie della giustizia. Ma non esiste altro modo per combattere la corruzione che garantire l’indipendenza della magistratura. Questo è uno dei capisaldi della democrazia. Borrelli lo sapeva bene. In uno dei suoi ultimi discorsi pubblici, prima del ritiro definitivo, disse che bisognava essere aperti ai cambiamenti «purché il diritto non venga sopraffatto dagli interessi».

«Resistere, resistere, resistere come su un’irrinunciabile linea del Piave». La sua eredità.

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