Milano si interroga

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Sembrano scintille di socialità. Bassi lumini di cera riverberano sui giovani volti una fioca luce, quella che può favorire la conversazione. Su rotondi tavolini d’alluminio atterrano giganteschi bicchieri con liquidi colorati più o meno alcolici. La musica è a volume sostenuto ma non disturba. Dalle sedie di plastica trasparente ci si alza di tanto in tanto per fare rifornimento al self-service: dalla bruschetta al pesce. Lo Shu, uno dei locali di grido nella zona di Porta Ticinese, brulica di gente. Ogni giorno, dalle 18.30 alle 21.00, si consuma da alcuni anni a Milano un rito modaiolo. Lo chiamano Happy hour, ora felice. Un abbondante aperitivo e una mezza cena per stare insieme. Al prezzo di 6,50 euro. La fauna veste con cura, come per un colloquio di lavoro. Le fanciulle sono particolarmente in tiro: impeccabili nell’eleganza e straripanti di grinta. C’è voglia di rilassarsi dopo una giornata di lavoro. Escono ogni sera e spendono quasi tutto lo stipendio. Per certi aspetti, Milano sembra la città dell’Happy hour – dicono gli osservatori sociali -, un fenomeno che lega la felicità dell’ora ad un cibo a poco prezzo e a molta chiacchiera senza vera relazione . Milano è anche Francesco, in città da quattro anni, studente di economia alla Bocconi. Si sente un privilegiato: la famiglia può assicurargli una formazione elevata (e costosa). Un posto letto tocca in media i 400 euro, e vivere in città ogni mese che passa è più dispendioso. Catapultato dai Castelli romani, è rimasto soggiogato da Milano. Il futuro è qua, disse al primo impatto, e lo ribadisce adesso. Vitalità, opportunità, iniziative in quantità. Milano aiuta ad essere concreti, a prendere l’iniziativa, a non lamentarsi. Ha anche scoperto, però, che Milano è difficile da vivere. È un’impresa trovare stabilità nei rapporti e non è facile sentirsi a casa. Non è raro che qualche studente non ce la faccia a restare. Li capisco. Per distendermi, vado via dalla città. Anche Gabriela lascia Milano ogni fine settimana. Torna dai suoi, in provincia di Como. Ma questo non vuol dire nulla. La città è molto bella, con una grande offerta culturale, si pensi solo alla Scala. Da poco laureata in scienze del turismo, lavora in un’azienda di promozione della città. Vado conoscendo una Milano che lavora davvero tanto, con una professionalità ad altissimo livello. Siamo o non siamo nella capitale economica del paese? Il suo sistema produttivo si colloca al quinto posto nella graduatoria delle principali città europee. Nell’area milanese si trova la concentrazione più alta, a livello nazionale, di industrie dell’alta tecnologia, elettroniche, informatiche e delle telecomunicazioni. I settori del tessile, dell’alta moda, dell’arredo e del design hanno reso Milano nota a tante latitudini. Vorrà pur dire qualcosa la scelta di insediarsi all’interno del territorio provinciale di Milano compiuta da quasi il 40 per cento delle imprese multinazionali che operano in Italia. Qua si trovano 80 centri di ricerca e dieci atenei di prestigio – dalla Statale alla Cattolica, dalla Bocconi al Politecnico -, con oltre 200 mila studenti. Da anni Milano è in trasformazione. Il settore industriale ha lasciato il passo a quello dei servizi. Svetta la Milano della finanza, dei rapporti internazionali. Milano va, affermano varie personalità. E non vogliono sentire parlare di declino. Piuttosto si tratta di accorgersi che la città è in pieno rinascimen to, sostengono alla Fondazione Fiera. Tanti famosi architetti stanno intervenendo con una serie di opere che renderanno Milano – tutti si augurano – più funzionale e più bella. La nuova Fiera, progettata da Massimiliano Fuskas, – 200 mila metri quadrati di superficie espositiva – è l’esempio più recente. Una parte del suo futuro Milano se la sta giocando proprio sul fronte dei grandi interventi di trasformazione urbana sulle aree industriali dismesse. Sono in ballo sette milioni di metri quadrati, più di quanto ricostruito dopo le distruzioni della Seconda guerra mondiale. Sono coinvolti grandi architetti per i nuovi quartieri residenziali. Ma chi saranno i destinatari? La ricca borghesia? O sarà preservato quel mix di funzioni e ceti sociali che ha fatto la storia della città? Milano significa il primato dell’iniziativa privata sulle istituzioni pubbliche, il successo delle capacità del singolo rispetto alle logiche burocratiche. Le aiuole (pubbliche) sono appaltate – come indicano gli appositi cartelli – a banche, aziende e a qualche munifico cittadino. Anche in fatto di solidarietà, il privato eccelle. E spiega la scelta di Milano quale sede dell’Authority del volontariato. Su 1,3 milioni di abitanti, ci sono 10 mila associazioni del cosiddetto terzo settore. Milano vivissima nella ferialità. E abbandonata nei fine settimana. Chi può, compresi Francesco e Gabriela, lascia la città con la stessa frenesia con cui ha vissuto i giorni lavorativi. I parametri della qualità della vita sono in preoccupante caduta. Pesante l’inquinamento atmosferico (il biossido di azoto è 5 volte superiore a quello di Roma), intasate le tangenziali, problematici i parcheggi, perché ogni mattina entrano in città per lavorare 700-800 mila persone. Non vanno in fabbriche, ma in aziende di servizi, per le quali devono trasferirsi in vari punti della città. Ed ecco il caos. Ma un altro esodo è in corso da alcuni anni. Quello del ceto medio, dei piccoli commercianti e dei tranvieri, degli infermieri e dei vigili, cui non bastano più le entrate. Milano era la città che dava da vivere: adesso – lamenta lo scrittore Luca Doninelli – dà solo da lavorare, ma non abbastanza soldi per vivere. In centro e nella zona sud di Milano sono tanti a lasciare. Per un box auto anche 90 mila euro. Si spostano nei comuni vicini. Il capoluogo vivrebbe una ragguardevole emorragia di popolazione, se non fosse in crescita la presenza degli immigrati. I nati con almeno un genitore straniero sono il 30 per cento delle nuove nascite. Restano i ricchi e i pensionati nelle loro case popolari. Due mondi che non si incontrano. Il reddito familiare è diminuito per il terzo anno consecutivo, mentre è au- 17mentata all’11,50 la percentuale di famiglie povere, quelle con un reddito annuo inferiore a 6.200 euro. Un quadro che interroga Milano. Una città che tira o è in affanno? Il card. Tettamanzi è severo. Viviamo costantemente in angoscia, chiedendoci se avremo ancora una casa e il nostro lavoro; se la pensione sarà sufficiente o lo stipendio ci basterà per arrivare a fine mese; se potremo formare una famiglia, se qualcuno provvederà alla nostra vecchiaia, ha affermato nel Discorso alla città, il 6 dicembre scorso, vigilia della festa di sant’Ambrogio. Ciascuno, allora, si costruisce le proprie piccole reti. Ma queste reti non si legano mai alle altre, non si allargano alla società. Nessuno sentirà di appartenere ad una comunità. Il filosofo Giovanni Reale ha scritto sul Corriere della Sera: È come se questa metropoli fosse stata colpita da un male che non le fa più comprendere i valori delle persone e delle cose, forse perché troppo concentrata sull’utile e sull’immediato . Per lo scultore Benedetto Pietrogrande non ci sono convergenze culturali, i circoli restano chiusi, con il pensiero in estinzione. Non ci sono più gallerie, dove l’arte si confronta, ma quadrerie dove l’arte si vende. Manca un progetto unificante. Completa il sindacalista Walter Galbusera, segretario regionale della Uil: C’è vitalità, si fanno tante cose, ma non c’è un’anima, un collante: ci sono tutti i pezzi, ma non fanno sistema. Come uscirne? Il quesito attraversa il capoluogo ambrosiano, mentre fanno campagna elettorale i due candidati sindaco, l’ex questore della città, Bruno Ferrante, e l’ex ministro dell’Istruzione, Letizia Moratti. Difficili le risposte. Eppure gli interlocutori incontrati a Milano convergevano su alcune indicazioni: unire le forze per individuare e perseguire il bene comune di tutti; ritessere relazioni autenticamente umane; tornare ad amare la città. Quest’ultimo verbo, amare, nella terra della produttività meneghina suona ricco d’accenti e di prospettive operative. Nessun tracollo sentimentale, sia chiaro. Tanto che, pure Il Sole 24 Ore, quotidiano economico di Confindustria, chiudeva un ampio servizio con un inconsueto invito: I milanesi comincino ad amare questa città oltre che usarla, ad apprezzarla anche nei fine settimana anziché fuggirla, a rispettarla come un prezioso capitale collettivo. Ci s’interroga anche sul patrimonio comune di valori da riscoprire e attualizzare. Alla cittadinanza, alla convivenza e alla professionalità serve un’etica, e all’etica un fondamento. Ha preso così avvio anche il dialogo tra fede e cultura, tanto all’università Statale, quanto alla Bocconi – templi del pensiero laico -. L’appuntamento è alle 18.00 Non è previsto l’aperitivo. Ma non dovrebbero risultare ore meno interessanti di quelle nei bar di Porta Ticinese. GIOVANI, TEMPO E LUNGIMIRANZA FEDERICO FALK Milano ha scambiato il lavoro con la qualità della vita. Su questo bisogna avviare una riflessione ampia e corale. Il traffico, il verde, l’estetica della metropoli hanno bisogno di ulteriore attenzione. Non basta fuggire da Milano il sabato e la domenica. E poi è indispensabile guardare ai giovani, prima di tutto a quelli che vengono espulsi dalla città, perché troppo costosa. Non si vede in loro il nostro futuro. Necessario, pertanto, investire nelle periferie, pensando ai giovani e alle loro esigenze d’aggregazione sociale. DARIO CASATI Abbiamo in città un numero di posti letto bassissimo in rapporto al numero di universitari. Così, lo studente entra in competizione con il giovane che ha appena iniziato la sua attività professionale e sta mettendo su famiglia, o con gli extracomunitari che cercano alloggi. A questo problema stiamo cercando di porre rimedio con una serie di progetti che coinvolgono tutto il sistema universitario. Sono milanese e mi pare che certi caratteri della milanesità – l’apertura, la capacità d’accoglienza, la cordialità – si siano negli ultimi tempi affievoliti. C’è bisogno di una Milano più umana, con maggiore solidarietà. Offre tutto, ma serve rallentare la corsa per avere tempo per parlare, per pensare, per rapportarsi con gli altri. MONS. ERMINIO DE SCALZI Serve innanzitutto uno sguardo lungimirante e il coraggio di pensare in grande. A me sembra necessario rivitalizzare una certa cultura politica dove il dialogo tra le istituzioni e i cittadini sia più stretto, più maturo, più vivace e concreto. Dal punto di vista concreto, ritengo che si debba guardare molto ai giovani, alla loro formazione, alla loro crescita culturale. Inoltre, bisogna creare percorsi non solo di accoglienza ma di vera valorizzazione di quei molti immigrati che già si sono inseriti nel tessuto della città e ne fanno pienamente parte. Infine, la grande urgenza del problema della casa. La vera grandezza di una città si misura non solo sulle strutture o sulla ricchezza ma soprattutto sulla capacità di affermare, rispettare e promuovere la dignità umana di ogni persona. PENSIERI ALTI, ARTE E SPERANZA STEFANO GRANATA È la città con il numero maggiore di associazioni di volontariato e di cooperative sociali. Realtà ricca, variegata, ma frammentata. Con la riduzione delle risorse, la struttura della stato sociale si è indebolita. Servono allora risposte innovative, come le imprese di comunità, che creano spazi di partecipazione, in cui lavorare al bene comune metropolitano con il concorso del pubblico e dei cittadini, delle imprese e delle fondazioni. Per questo è necessario un pensiero alto, di ampio respiro, che riqualifichi il bene comune, che fondi una progettualità di lungo periodo. Il terzo settore, così vicino alla gente, potrebbe essere collettore di tante risorse e disponibilità. Purtroppo, nella città mancano figure autorevoli, né si intravede una futura classe dirigente. MONI OVADIA Quando dicono che Milano è una città europea, mi viene da ridere. Ma le hanno viste le città europee? Milano ha subìto un’involuzione culturale, si è molto isterilita nelle sue fibre esistenziali. C’è una grande borghesia colta che si è ritirata, di cui non si vede traccia. La città ha bisogno di massicci investimenti in campo culturale e sociale. Secondo me, serve un gruppo di personalità nel campo amministrativo, politico, artistico, culturale e sociale che guardino all’Europa e pongano Milano all’avanguardia. Occorre far emergere la sua profonda anima, che è stata coperta da quella melassa del mercantilismo della moda. Non è possibile che le sfilate di moda sembrino il massimo evento culturale. Sono, comunque, fiducioso. Ho registrato una gran voglia di riscatto, di combattere sui valori per la vita culturale, sociale e spirituale della città. FRANCESCO CASETTI Guardiamo alle priorità. La sicurezza e la leggerezza del vivere e l’intensità delle relazioni umane sono due esigenze che non vanno ricondotte solo ad una questione economica. La socialità e la vivibilità di una città sono i due criteri fondamentali della cittadinanza. Poi, serve una congiunzione di leadership e partecipazione. Sono due elementi la cui virtuosità sta nella loro congiunzione. Una leadership che lascia i governati come passivi non è positiva; e una partecipazione che non si esprime in un disegno unitario, non è positiva. Tutto questo può avvenire se rientra in gioco il senso del futuro e la speranza. Altrimenti questi ragionamenti non s’innescano, perché la speranza e il futuro sono il vero elemento che consente, da una parte, di prendere delle decisioni che durino nel tempo e, dall’altra, di investire pezzi della propria vita nella città. Se mancano queste due dimensioni, ti alzi la mattina e lotti fino a sera, ma non è vita. Lo stesso vale per la città, che si arrabatta giorno dopo giorno, ma non fa strada. Mancano una progettazione per il futuro e investimenti per il domani.

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