LIVE 8: considerazioni a margine.

L’ennesimo più grande concerto della storia si è chiuso nel consueto tripudio mediatico. Sui dieci palchi sparpagliati per il pianeta è andato in scena una sorta di gran campionario di poprockologia globalizzata. Nel momento in cui scrivo non è ancora dato sapere se abbia raggiunto l’obiettivo che si era preposto (far pressione per l’annullamento del debito dei paesi poveri), ma in questa sede vorrei piuttosto accennare a certi presupposti e corollari che generano ciclicamente questo tipo di abbuffate iperspettacolari. Se le democrazie postmoderne non sembrano esser altro che il concetto di share applicato alla politica, allora è evidente che questo tipo di eventi sono comunque uno degli strumenti più efficaci: non tanto per sensibilizzare le masse, quanto per costringere i potentati della Terra ad uscire dalle loro logiche. Con l’unico messaggio che questi signori sono in grado di capire: è conveniente per loro farlo. Le canzoni popolari, a prescindere dalle rispettive peculiarità stilistiche, sono da sempre espressione delle realtà sociali che le circondano. Specchio più o meno deformato e deformante di quella stessa Vita di cui si nutrono. Il loro specifico è prioritariamente quello di veicolare emozioni, non messaggi. E sono proprio queste che a volte (ma ben più raramente di quel che si vorrebbe) possono finanche contribuire a smuovere le coscienze di chi le fa e di chi le ascolta. Ma l’esperienza insegna che raramente sono le emozioni a catalizzare le inversioni di rotta più significative e/o necessarie, ma piuttosto certe riflessioni a freddo, maturate nel tempo e nel silenzio: in certi territori dell’intimo umano, insomma, dove tutt’al più sanno arrivare solo i testimoni più credibili, e non certo gli slogan dei profeti mediatici, le chiacchiere dei predicatori o le belle canzoni delle popstar. Da che esiste, il musicbusiness è da sempre espressione sintomatica del sistema capitalistico. Assurdo dunque pensare che esso e i suoi protagonisti possano essere immuni da quelle stesse contraddizioni che pure dichiarano di voler combattere: perché, con buona pace dei ribellisti d’ogni età, sono proprio queste le ragioni del suo esistere, e della sua così duratura fortuna. Nonostante la nobiltà delle intenzioni, anche su molti dei partecipanti di questo Live 8 si sono allungate le ombre lunghe dei sospetti d’opportunismo. Un classico che ha anche questa volta ha avuto più di una ragion d’essere, ma sul quale mi pare pretestuoso speculare, almeno fino a che a un essere umano non sia dato d’entrare nel cuore e nella coscienza profonda di un altro. Il beneficio del dubbio e tutte le eventuali attenuanti del caso credo vadano concesse anche a questa baluginante fiera dell’effimero e più ancora alle sue comparse, specie quelle più precarie. Se questi mega-eventi servissero davvero a qualcosa non saremmo ancora alle prese coi drammi dell’Africa che, a vent’anni di distanza dai vari Live Aid et similia, sembrano semmai ulteriormente peggiorati. Per certi versi, anzi, vien perfino il sospetto che essi assolvano soprattutto al compito di alibi per rassicurare le coscienze (di chi li fa come di chi ne fruisce). Epperò anche questa è ancora una troppo parziale verità. Poiché essi, come qualunque tipo di strumento (mediatico e meno che sia), sono evidentemente neutrali in sé, in quanto totalmente dipendenti non solo dall’utilizzo che se ne fa, ma anche dallo spirito con cui li si utilizza. Così, se è vero che la storia siamo noi, nessuno si senta escluso, come cantava De Gregori al Circo Massimo, è ancora troppo presto per sapere se questo Live 8 abbia davvero lasciato un segno nuovo, alto, e realmente efficace: come i suoi progenitori ed eredi, ha molto più bisogno degli infiniti signor Rossi sparsi per il pianeta, che non di un qualunque Bob Geldof, delle buone vibrazioni di una notte, o di una confraternita di plenipotenziari a caccia di consensi. Franz Coriasco D NOVITÀ DANIEL POWTER Cgd Warner Un giovane cantautore candese da tener d’occhio: ha gusto musicale, personalità, sa mischiare vecchio soul e nuovo pop-rock con molto buon gusto. Se continuerà a tenere i piedi in terra e il cuore fra le nuvole, il futuro è assicurato. ALI FARKA TOURE’ & TOUNAMI DIABATE IN THE HEART OF THE MOON World Circuit Due tra gli artisti africani più dotati con lo zampino del solito Ry Cooder.Al Circo Massimo non li han voluti (troppo poco famosi…), ma questo disco -una dozzina di duetti tra una chitarra acustica e una kora- è una delizia: musica povera, umilissima, e fragile come un cristallo di Boemia, ma capace di intenerire i cuori di ogni latitudine. f.c.

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