L’Italia e l’Azerbaijan, la pace e i condizionatori accesi

Esodo di massa della popolazione armena dopo la vittoriosa guerra lampo condotta dall’esercito azero nel Nagorno Karabakh. Neanche il timore dell’avvio della pulizia etnica sembra spingere l’Europa e l’Italia a mettere in discussione i rapporti di import ed export di armi ed energia con l’Azerbaijan
Rifugiati armeni provenienti dal Nagorno-Karabakh (AP Photo)

È stato l’impiego dei droni kamikaze da parte dell’Azerbaijan l’arma vincente che ha seminato, nel 2020, il terrore sulle truppe armene e nella repubblica separatista dell’Artsakh nel Nagorno Karabakh.

(Defense Ministry of Azerbaijan via AP)

In pochi mesi si sono contati migliaia di morti tra militari e civili (i numeri differiscono secondo le parti) per arrivare ad un cessate il fuoco e ad un’intesa favorevole agli azeri. Sul web sono accessibili i video che propagandano la potenza letale dei droni di fabbricazione turca su brevetto israeliano, in grado di aggirare le difese nemiche.

Non parliamo, perciò, di conflitti lontani nel tempo e neanche di regioni così remote geograficamente perché il Tap, il  gasdotto Trans-Adriatico che arriva sulla costa pugliese, parte proprio dall’Azerbaijan.

Oltre che per il petrolio, la repubblica ex sovietica nel Caucaso è, infatti, assieme all’Algeria, uno dei principali fornitori di gas a cui si è rivolto il nostro Paese per attenuare la dipendenza dalla Russia in guerra con l’Ucraina.

«Preferiamo la pace o il condizionatore acceso?» è stata la famosa e retorica domanda di Draghi, nell’aprile del 2022, per sostenere la necessità di condividere con la Ue l’embargo alle importazioni di gas da Mosca.

Quesito che dobbiamo riproporre oggi non solo nei confronti dell’approvvigionamento energetico, ma anche con riferimento alle forniture di sistemi d’arma da parte dell’Italia verso il Paese azero, stretto alleato della Turchia di Erdogan, che, il 19 settembre 2023, mentre si apriva l’assemblea generale dell’Onu, ha sferrato il colpo finale, definito “operazione anti terrorismo”, contro l’enclave armena nella regione contesa del Nagorno Karabakh, situata tra Azerbaijan e Armenia.

Un intervento bellico che ha provocato la morte di almeno 200 persone dopo un assedio di 10 mesi al corridoio di Lachim, via di comunicazione con l’Armenia, che ha ridotto alla fame la popolazione civile.

Come conferma la stampa  del settore della difesa, l’export di armi italiane all’Azerbaijan non riguarda solo la società Leonardo che, ad esempio, ha recentemente fornito all’aeronautica azera alcuni velivoli  da trasporto tattico C-27J “Spartan”.

L’efficacia devastante dei droni kamikaze nel conflitto in Nagorno Karabakh si è rivelata, inoltre, utile ad incentivarne l’acquisto in numerosi Paesi. Anche da parte dell’Italia che li compra dalla tedesca Rheinmetall tramite la società Rwm Italia, al centro del contezioso per la fornitura di bombe all’Arabia Saudita.

(Russian Defense Ministry Press Service via AP)

Per effetto della guerra lampo, come ha scritto Michele Zanzucchi su cittanuova.it, è in corso in queste ore l’esodo in massa degli armeni dell’Artsakh, destinati a ingrossare il numero dei profughi in fuga dalla propria terra dopo la capitolazione da parte della piccola repubblica destinata, probabilmente, ad estinguersi.

In Italia risiedono poco più di un migliaio di cittadini di origine armena, eredi dell’emigrazione forzata dopo il genocidio del loro popolo avvenuto all’inizio del secolo scorso in Turchia. Sono molti di più in Francia, almeno 600 mila, ma anche da noi il Consiglio per la comunità armena di Roma ha lanciato un forte appello che chiede di non abbandonare gli armeni dell’Artsakh davanti alla «resa pressoché incondizionata delle autorità di Stepanakert di fronte alle perdurante minaccia delle bombe azere, e di una possibile pulizia etnica».

«Siamo molto preoccupati – afferma il comunicato –  per la sorte dei 120mila armeni della regione costretti a lasciare patria, case, lavoro per fuggire altrove, oppure destinati a vivere come sudditi odiati nella dittatura di Aliyev che (report 2023 di Freedom house) è fra le peggiori al mondo per rispetto dei diritti civili e politici». Non manca anche una forte critica da parte degli armeni italiani verso il governo del nostro Paese che, con il suo ministro degli Esteri, ha continuato a definire l’Azerbaijan “partner importante” «proprio mentre i soldati di Aliyev (presidente azero, ndr) stavano bombardando città e villaggi dell’Artsakh».

La nota scrittrice italo armena Antonia Arslan si dice convinta che «Azerbaigian e Turchia non si fermeranno all’Artsakh: il loro obiettivo è invadere tutta l’Armenia e portare a termine l’estinzione del mio popolo». Alla Arslan, nel 2021, è stata intitolata una scuola di formazione dei giovani costruita dagli armeni del Nagorno-Karabakh in collaborazione con associazioni e istituzioni locali italiane proprio per sostenere una comunità altrimenti destinata all’assimilazione forzata.

L’esodo degli armeni dal Nagorno Karabakh apre allo scenario della possibile eradicazione di una presenza millenaria di un popolo che per primo, come nazione, ha storicamente abbracciato la fede cristiana. Un fatto che rende ancora più evidente il silenzio delle nazioni occidentali, in nome del realismo politico, davanti all’ascesa della potenza militare ed economica azera, basata sul possesso e la gestione delle fonti energetiche.

Sono stati molto blandi gli inviti a cessare le ostilità da parte dei vertici Ue, senza, tra l’altro, arrivare a condannare l’azione militare dell’Azerbaijan e, prima ancora, l’isolamento forzato dell’enclave armena con la chiusura del corridoio di Lachim imposto anche agli aiuti della Croce Rosa internazionale.

La debolezza dell’Armenia, il deteriorarsi dei suoi rapporti con la Russia, alla quale è comunque legata da un’alleanza militare di difesa, potrebbe indurre la potenza azera a forzare la mano contando sulla protezione della Turchia per allargare il conflitto rivendicando altre aree contese dopo l’implosione dell’Unione Sovietica.

Ilham Aliyev e Recep Tayyip Erdogan Turkish Presidency via AP

Sono elementi sufficienti per riaprire la discussione sull’interruzione della fornitura di armi all’esercito azero non solo da parte dell’Italia ma dell’intera Unione europea, senza contare la leva offerta dalla sospensione della richiesta di gas come strumento per fermare il protrarsi del conflitto, con la disponibilità dell’Europa ad inviare forze di interposizione sotto l’egida dell’Onu.

Fonti europee, come riporta l’Ansa, hanno annunciato l’imminente riunione «tra i consiglieri nazionali della sicurezza di Armenia, Azerbaigian, Francia, Germania con il rappresentante speciale Ue per il Caucaso Meridionale» per arrivare a «preparare un possibile incontro dei leader a Granada, in Spagna, dove il 5 ottobre si terrà il vertice della Comunità Politica Europea».

Il primo ministro armeno Nikol Pashinyan visita il cimitero delle vittime della guerra del 2020 in Nagorno-Karabakh (Tigran Mehrabyan/PAN Photo via AP)

Segnali di una diplomazia in azione, ma l’esodo di massa dei profughi, il timore della pulizia etnica e il possibile allargarsi del conflitto invitano a fare in fretta.

Si ripropone perciò in maniera drammatica il dilemma tra la sicurezza dei nostri condizionatori e la ricerca della pace che passa da scelte che non sono indolori. A meno che, ancora una volta nella storia, si decida di ignorare il grido di aiuto del popolo armeno.

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