L’integrazione di successo: nella storia e oggi

Continuiamo nell’ analisi della natura e delle cause del ricorso al conflitto che sta avvenendo a tutti i livelli sociali, dalla politica allo sport, al razzismo. Per una  gestione positiva della competizione  
James Foster/Chicago Sun-Times via AP

A differenza di risposte basate sul mantenimento del conflitto l’integrazione di successo ha come fondamento il suo superamento, tramite la gestione soddisfacente a lungo termine. Non rappresenta un cedimento di una delle due parti e nemmeno un compromesso insoddisfacente, al ribasso, che apre la strada ad un peggioramento della conflittualità nel futuro. Questo equivoco è alla base della convinzione, oggi molto diffusa, che i conflitti legati ai fenomeni migratori vengano esacerbati da un atteggiamento di arrendevolezza e buonismo verso i popoli che vivono in condizioni meno allettanti di quelli più ricchi e più sviluppati.

La vera integrazione è un processo che si realizza con il preciso e condiviso scopo di superare il conflitto; ciò avviene quanto tutti gli interessati capiscono:

1 – che il conflitto è controproducente e non sostenibile a lungo termine:

2- che la soluzione può essere migliore della situazione precedente all’avvio della competizione.

Questo aspetto differenzia chiaramente il modello dell’integrazione di successo da quello del compromesso al ribasso di stampo buonista; per realizzarla è necessaria l’applicazione dell’intelligenza cooperativa, che consente di ottenere un risultato complessivo maggiore della somma di quanto ottenibile dai singoli contributi di ogni collaboratore (sinergia).

La storia contiene parecchi casi che dimostrano come l’integrazione di successo non sia un modello astratto o un sogno utopico; per chi desidera approfondire, sono esempi interessanti la storia delle popolazioni italiche del IX secolo AC, che instaurarono relazioni commerciali con i popoli Anatolici immigrati: la commistione di elementi culturali e tecnologici fra i due gruppi ha contributo alla nascita di un modello di civiltà più avanzato.

Lo stesso Impero Romano, nei secoli II e III dopo Cristo, ha gestito in modo efficiente la pressione dei popoli limitrofi, permettendo loro di organizzare e tenere in buon ordine territori altrimenti indifendibili e desolati, con enorme risparmio di risorse militari, miglioramento della produttività l’incremento delle conseguenti entrate per l’erario, derivanti dal gettito fiscale. Allo stesso tempo, i popoli minacciati dalle scorrerei delle tribù nomadi delle steppe asiatiche hanno ottenuto nuovi territori nei quali riorganizzare il proprio sistema di vita, sotto la protezione derivante dallo status di “federati” del formidabile alleato.

Relazioni integrative di successo si trovano persino fra vincitori e vinti: dopo la fine dell’Impero Romano in Europa sono fioriti nuovi schemi sociali e culturali che hanno permesso di andare avanti, senza soccombere alla catastrofe rappresentata dal collasso del precedente ordine sociale. Un sistema basato sulla collaborazione fra la classe dirigente romana, militarmente debole ma depositaria di conoscenze e tecniche di amministrazione civile, e l’energica capacità operativa dei nuovi arrivati, in grado di garantire ordine e sicurezza, ma dotati di strutture di governo del tutto inadeguate a gestire qualcosa di più complesso di una federazione di tribù. Laddove questo modello ha trovato spazio per essere applicato con successo, un po’ ovunque nell’Europa centro-occidentale, è sorto un nuovo schema di relazioni, poi maturate nel feudalesimo.

Anche ai nostri giorni non mancano in questo campo esempi positivi, dai quali si possono trarre elementi utili ed attuali: storie di integrazione di successo si trovano ogni giorno, soprattutto su scala locale, dove la dimensione relazionale, vero prerequisito metodologico di questo processo, è più facilmente preservata, percepita e valorizzata.

Si potrebbe continuare, e spero che molti lettori traggano da questi accenni lo spunto per farlo. Certo, è evidente che analizzando la storia si troveranno decine di controesempi, nei quali ciò che viene a mancare è soprattutto la dimensione della reciprocità: nessun popolo indigeno dell’Africa ottocentesca è stato interpellato in merito alla condivisione degli obiettivi ottenibili dal modello colonialista, così come la moderna e pervasiva invasione del mercato e del consumismo non ha saputo di certo promuovere, verso le culture tradizionali incontrate, modelli di integrazione basati sull’intelligenza cooperativa.

Da questi spunti si può trarre una riflessione sulle problematiche del nostro tempo: il fatto che l’intelligenza cooperativa sia una valida alternativa alle categorie del “buonismo” e del “cattivismo” in voga nella discussione contemporanea, e che l’integrazione di successo abbia rappresentato in passato un’alternativa all’esito infausto di situazioni difficili e potenzialmente distruttive.

Oggi, in maniera non diversa da ogni altra epoca, si profilano scelte che condizioneranno il nostro futuro in maniera decisiva: anche questa volta, una parte di tale responsabilità si trova nelle mani di ciascuno di noi.

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