Libia, ripresi i negoziati per la nuova Costituzione

Anche se ultimamente sembra che tutto sia ripiombato nello stallo fra est e ovest, il percorso per dare alla Libia un assetto condiviso non si ferma. Tra alti e bassi, proteste e tensioni, prove di forza e tenui speranze di dialogo fra le parti. L’ostacolo principale, oltre allo scontro endemico di interessi tribali, è indubbiamente la presenza di truppe mercenarie legate a potenze straniere.
Libia, militari fedeli ad Abdul Hamid Dbeibah hanno spinto Fathi Bashagha a lasciare Tripoli. Foto Ap.

In Libia, nonostante il grande sforzo, promosso dall’Onu nel 2021, per giungere ad un accordo-tregua tra fazioni e milizie (alcune centinaia, almeno 50 mila i miliziani che ne fanno parte) e cercare di arrivare ad elezioni presidenziali (dicembre 2021), di elezioni non ce ne sono state. E da allora la situazione è andata ulteriormente avviluppandosi.

A Tripoli, il primo ministro ad interim Abdul Hamid Dbeibeh, sebbene sfiduciato dal Parlamento di Tobruk, non si è dimesso dopo le mancate elezioni. In compenso, i deputati di Tobruk guidati dal presidente della Camera, Aguilah Saleh, hanno deciso a marzo di designare un altro premier e un governo definito di “stabilità nazionale”: ironia delle parole in un Paese dove di stabile c’è ben poco.

Il secondo premier (che ovviamente non si ritiene secondo a nessuno), Fathi Bashagha, l’uomo forte di Misurata, ha pensato che se fosse arrivato a Tripoli avrebbe potuto insediarsi e togliere di mezzo Dbeibeh. Con le buone o con le cattive. Detto fatto, il 17 maggio scorso Bashagha e i suoi ministri si sono presentati a Tripoli in pompa magna, scatenando scontri a fuoco che li hanno convinti a tornare molto velocemente a Tobruk. Dbeibeh ha infatti dichiarato che si rifiuta di cedere il passo ad un governo non eletto, ed ha rilanciato la proposta di tenere elezioni parlamentari a giugno. Cosa decisamente improbabile.

Nella querelle si inseriscono poi anche i manifestanti anti-Dbeibeh, che protestano contro quella che ritengono una gestione non trasparente delle risorse petrolifere (la principale, quasi l’unica, risorsa economica della Libia), con l’immediato risultato di dimezzarne la produzione. Oltre a questioni di spartizioni del potere, il nodo del contendere è intuitivamente una rivendicazione sulla divisione dei proventi derivanti dalla vendita del greggio. Stiamo parlando del primo Paese in Africa per risorse petrolifere e gas.

A complicare se possibile le cose ci sono poi i mercenari stranieri e le armi ampiamente fornite da chiunque: potenze e potentati vari interessati probabilmente ad una spartizione della Libia.

Nella diatriba libica sono coinvolti a vario titolo Emirati Arabi ed Egitto accanto al “generalissimo” dell’est Khalifa Haftar, sostenuto sul campo anche da mercenari sudanesi e ciadiani, e dal contingente di contractors russi della Wagner. Dalla parte di Tripoli spiccano i siriani inviati dalla Turchia e gli istruttori turchi.

Da sempre sulla Libia sono puntati anche gli occhi della Francia (che sostiene Haftar) e dell’Italia (che sostiene Tripoli), oltre a quelli dell’Ue. Per l’Italia, in particolare, la Libia è da decenni una delle priorità di politica estera, sia a motivo di petrolio e gas che per le politiche anti-migratorie, con decine di milioni di euro spesi per finanziare la “famigerata” guardia costiera libica, che intercetta migranti disperati e li smista in circa 10 mila strutture di detenzione, denunciate per torture, trattamenti disumani, violenze sessuali, abusi e morte dalla Commissione d’inchiesta nominata dal Consiglio dei diritti umani dell’Onu. Anche l’Ue non è stata da meno nel sostegno milionario (centinaia di milioni) alla guardia costiera libica.

In questo quadro, peraltro molto sommario, anche la questione delle armi è tuttaltro che secondaria: se per l’Egitto favorire il transito di armi verso l’esercito di Haftar non è mai stato un problema, data la contiguità di confine, a Tripoli ci pensa da un paio d’anni soprattutto Ankara (erano turchi i droni che hanno bloccato nel 2020 l’offensiva di Haftar contro Tripoli), con un non meglio precisato sostegno economico del Qatar.

Anche nei giorni scorsi, una nave turca, la Kosovak, ha negato il permesso ai militari europei della missione Irini di ispezionare il proprio carico  (in conformità con la risoluzione 2292 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sull’embargo di armi dirette in Libia). La nave portacontainer di 14 mila tonnellate, partita da Istanbul e diretta a Misurata, era fortemente sospettata di trasportare armamenti. È la settima volta che una nave turca nega il consenso all’ispezione.

Una notizia positiva comunque c’è: i negoziati di consultazione su una futura Costituzione libica si sono svolti la settimana scorsa al Cairo, in Egitto, fra 12 membri del Parlamento di Tobruk e altrettanti dell’Alto Consiglio di Stato di Tripoli. L’obiettivo, anche se non scontato – ha detto la rappresentante dell’Onu Stephanie Williams – è trovare “una formula consensuale per raggiungere elezioni presidenziali e parlamentari il prima possibile”.

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