Le mafie e la responsabilità delle banche

Il frutto dell'usura è un fiume di denaro da riciclare e tutto comincia dal sistema bancario. La denuncia di Libera, che racconta storie impensabili di chi non lascia le vittime da sole
Usura

Le organizzazioni criminali entrano nei gangli vitali della società civile condizionando il sistema economico del Paese. Non è una tesi astratta ma la conclusione di molti magistrati che, come il pubblico ministero Vincenzo Luberto impegnato nell’operazione Star Price 2, parla di “bot delle mafie” proprio per indicare gli alti tassi di interesse dei soldi dati in prestito con l’usura. Denaro che crea altro denaro, usato per rilevare o avviare attività commerciali e imprenditoriali con prestanome compiacenti. All’inizio del tunnel dell’usura c’è spesso il fido mancato di una banca, il tentativo disperato di salvare il salvabile davanti a troppe porte che si chiudono. Una questione di sistema che affrontiamo con don Marcello Cozzi, vicepresidente nazionale di Libera.
 
Quali richieste avanzate di fronte a questi problemi di carattere strutturale?
«Innanzitutto chiediamo un cambio di direzione alle banche. Non c’è “Basilea,1,2 e 3” che tenga. Anche quando non stavamo dentro questa crisi, noi dicevamo che i protocolli prudenziali, richiesti per l’apertura di credito secondo l’accordo di Basilea entrato in vigore dal 2010, diventavano una camicia di forza per l’impresa. Quando un’azienda opera sul territorio si affida ad un rapporto di fiducia con le banche. I direttori di agenzie conoscono i loro interlocutori, sanno che molte imprese medio piccole operano sempre sul filo del rischio perché, magari, lavorano e i loro prodotti e servizi non sono pagati regolarmente, ma entra in gioco un rapporto di fiducia».
 
Cosa è cambiato ultimamente ?
«Abbiamo un sistema bancario che nel Sud del Paese viene per raccogliere, ma non a concedere prestiti e sostegno. Praticamente l’agenzia si comporta come un bancomat legato a dei vincoli informatici. Se l’azienda è classificata in un certo modo si toglie il fido anche davanti ad uno scoperto fisiologico. Non c’è più alcuna valutazione della ragionevolezza e del buon senso nei confronti di un’impresa che è solida ma si trova a corto di liquidi, di denaro.
 
Cosa fa di solito la banca ?
«Il direttore di filiale consulta il terminale e dice sempre la stessa cosa al cliente: non deve parlare con me ma con la sede centrale. Si decide a Roma, Milano, Siena…Noi chiediamo da sempre al sistema bancario la capacità non di fare beneficienza, ma di trattare la singola azienda e il cittadino per quello che è, per la sua storia. Non siamo una massa anonima o solo dei numeri. Ci vuole una capacità di attenzione e di ascolto nei confronti delle aziende in crisi. Con un minimo di attenzione in più, molti imprenditori non sarebbero venuti a chiedere aiuto ai nostri sportelli antiusura, si sarebbe evitato l’esposizione ad un dramma che consuma la vita stessa delle persone generando nuove povertà».  
 
Ma le regole sono imposte dal nostro stare in Europa e sarebbe irresponsabili violarle. Non è questa la risposta che avrete ricevuto?
«Non è una questione di irresponsabilità ma, al contrario, di chiamata alla responsabilità. Salvare l’Europa non significa salvaguardare la finanza e lasciare su una zattera, alla deriva di un mare in tempesta, tantissima gente che non ce la fa più. Un ente pubblico, un’istituzione non può negare di pagare correttamente chi ha fornito un’opera o un servizio. Abbiamo casi estremi e incomprensibili come le cooperative sociali che non ricevono il compenso per il lavoro svolto con i disabili e gli anziani. I sacrifici sono disposti a farli tutti, purché ci sia una prospettiva davanti. La possibilità di avere il necessario da  mettere sulla tavola».  
 
Oltre all’eccezione di Banca Etica e, si presume, delle banche di credito cooperativo, c’è una richiesta esplicita che pensate di rivolgere al sistema bancario? Esiste una risposta ufficiale dell’Abi?
«No, non ancora. Stiamo iniziando adesso ad esecitare una pressione politica sulla questione dell’usura. Il lancio di una fondazione nazionale con la presenza di sportelli in diverse città di Italia ci permette di fare un discorso complesso».
 
Oltre le imprese, che tipo di percezione avete delle esigenze delle famiglie che non arrivano neanche alla seconda settimana del mese?
«Si spalanca, in questi casi, un mondo enorme. Facciamo salti mortali per studiare i casi concreti e andare a trattare con le banche. Molte volte arriviamo ad accordi soddisfacenti ma sappiamo bene che ci troviamo davanti a degli interlocutori che sono i terminali delle stesse istituzioni finanziarie che, su un altro livello, chiedono ai governi di far pagare più imposte ai cittadini per far fronte agli interessi del debito pubblico. Un ingranaggio folle che ci sta stritolando. In questo momento di crisi ci accorgiamo che ci sono livelli decisionali superiori agli stati e ai governi. Eppure ci sono tante buone prassi ed esperienze positive in tutta Italia che dimostrano la capacità delle istituzioni e della società civile, che collaborano per trovare assieme una risposta. La nostra fondazione “Interesse Uomo” è diventata nazionale a partire dalla pratica decennale avviata in Basilicata assieme con l’amministrazione comunale e provinciale».
 
Ma che garanzie reali di protezione riesce ad avere un soggetto che vuole liberarsi dallo strozzinaggio mafioso? 
«Ho conosciuto diversi casi. Ho presente il caso di una persona che nella Capitale ha dovuto vendere tutto, anche l’anima, e meditare di fuggire ma, alla fine, è riuscito a denunciare gli aguzzini. L’usuraio classico quando viene scoperto diventa un agnellino, perde la faccia da orco. Diverso è il caso quando ci si deve confrontare con la criminalità organizzata. Le minacce sono terrorizzanti. Per questi motivi quando la vittima chiede aiuto non può essere lasciata da sola. Dallo Stato come dalla società civile. Noi la accogliamo e l’accompagnamo. Ad esempio esiste una bellissima esperienza di Libera a Reggio Calabria dove una rete di 60 tra cittadini, imprenditori e commercianti si son messi assieme per portare avanti una strategia di contrasto all’usura e al racket: si chiama “ReggioliberaReggio”.Questa rete ci permette di stare sempre vicino a chi trova il coraggio di denunciare fino a costituirci parte civile nei processi».
 
E cosa riesce fare lo Stato? 
«La scelta di non fuggire, di restare sul territorio, senza piegarsi al volere dei clan mafiosi comporta la messa in moto di un programma di sicurezza che prevede la scorta e la tutela delle forze dell’ordine. Ma certo si può fare meglio e molto di più. Soprattutto in un momento come questo in cui la polizia non ha i mezzi, ha difficoltà anche ad avere i soldi per la benzina delle macchine di servizio. È una grande contraddizione alla quale si cerca di rispondere con l’impegno civile diretto».
 
E cioè cosa fate?
«È cominciato da poco un programma europeo con gli amici torinesi dell’associazione Acmos per attivare un servizio di accompagnamento quotidiano, dalla mattina alla sera, dei testimoni».
 
Ma è un’iniziativa quasi inconcepibile…
«È una cosa bella. Quel singolo che denuncia e si ribella deve essere percepito come facente parte di un gruppo, di un’associazione che non lo lascia mai da solo. Quando alcuni imprenditori di ReggioliberaReggio sono arrivati fino al processo per denunciare il racket dell’estorsione, i nostri ragazzi sono scesi apposta da Torino per andare, assieme agli altri del Sud, a presenziare in tribunale. I criminali devono rendersi conto di essere in minoranza».    
 
Ma di solito chi denuncia resta anche senza commesse e con pochi affari.
«Per questo abbiamo pensato e messo in opera forme di consumo critico che privilegiano l’acquisto di prodotti di aziende che si svincolano dal dominio mafioso».
 
Per approfondimenti cfr www.libera.it/sosgiustizia

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