Le cause della crisi alimentare che minaccia il mondo

Cosa c’è dietro i timori di una grave crisi alimentare a causa della guerra in Ucraina? E qual è la situazione per il Medio Oriente e il Nordafrica rispetto al blocco del grano ucraino e alle sanzioni su quello russo? Ma è solo colpa della guerra?
Un campo di grano

La realtà è come sempre più complessa di certi annunci mediatici ad effetto, ed è necessario comprendere la complessità per reagire adeguatamente ed efficacemente. Mi riferisco, nello specifico, ad una pesante crisi alimentare mondiale annunciata come imminente, e in parte già iniziata, che sarebbe provocata dalla guerra in Europa: in altri termini dal blocco delle esportazioni di grano dall’Ucraina e dalle sanzioni su quelle russe.

Secondo i dati Fao del 2020, i 10 maggiori produttori mondiali di grano erano, nell’ordine: Cina, India, Russia, Usa, Canada, Francia, Pakistan, Ucraina, Germania, Turchia. I primi 3 insieme rappresentavano il 41% della produzione globale. Da notare che l’Unione Europea in quanto tale non veniva considerata, ma se lo fosse si collocherebbe al secondo posto, subito dopo la Cina.

Un primo dato importante da considerare, però, è che l’Ucraina (41 milioni di abitanti) prima della guerra era da sola la quinta maggiore esportatrice di grano (9-10% delle esportazioni mondiali) perchè i colossi cinese e indiano in sostanza non esportano, ma devono anzi importare una parte del loro fabbisogno (Cina e India insieme hanno circa 2,8 miliardi di abitanti), come pure il Pakistan e la Turchia (315 milioni di abitanti complessivi). Russia e Ucraina, prima del blocco del Mar Nero, erano i principali fornitori di grano, mais e olio di girasole di una cinquantina di nazioni, soprattutto in Asia e in Africa. Nazioni dell’Africa subsahariana, del Nordafrica e del Medio Oriente, soprattutto l’Egitto. Ma anche Bangladesh e Indonesia.

Oggi, dopo l’inizio della guerra a febbraio, si sono accumulate almeno 16 milioni di tonnellate di mais e 14 di grano mai consegnate. E questo considerando insieme la produzione ucraina e quella russa: la prima bloccata nei porti dalle mine e dal blocco navale, la seconda dal blocco e dalle sanzioni. Per la produzione di quest’anno, per quanto ridotta, per ora non si vedono sbocchi. E se la guerra continuerà, sarà molto difficile seminare, anche per gli aumentati costi di tutto, oltre che per la mancanza di prospettive di commercializzazione.

Una mancanza di materie prime alimentari che nei paesi ricchi fa per ora crescere l’inflazione, ma in quelli poveri allarga fin d’ora e sempre di più l’indigenza alimentare.

Molti dei Paesi che rischiano una pesante carestia (che significa fame, rivolte e crescita esponenziale del numero di migranti) innescata dal blocco delle forniture, in realtà sono in un certo modo vittime della globalizzazione: nel mondo di prima della guerra, infatti, era più conveniente importare grano, mais e olio da Russia e Ucraina piuttosto che produrlo. Ne è un esempio emblematico l’Egitto: da granaio del Nordafrica a importatore di grano per l’80% del fabbisogno interno. In fondo è un discorso analogo, con le dovute differenze, a quello del gas per l’Europa: fino a pochi mesi fa si riteneva inutile estrarlo o costruire gasdotti alternativi (vedi il caso del Tap in Puglia) o differenziare le forniture dotandosi di costosi rigassificatori, dato che il gas russo era più conveniente e facilmente accessibile.

Tra parentesi è utile ricordare che la Russia e la Bielorussia erano anche i maggiori fornitori di concimi (di vario tipo), la cui esportazione è oggi bloccata o comunque molto inibita dalle sanzioni. E senza concimi è molto difficile, anche volendo, impiantare e sostenere coltivazioni alternative.

Ma per quanto riguarda la carestia mondiale in arrivo, c’è un altro aspetto che va considerato, e non è secondario, anche se finora non lo si è preso veramente sul serio, particolarmente in riferimento all’agricoltura. Ed è l’avanzare dei cambiamenti climatici, che in Africa, Nordafrica e Medio Oriente sono sempre più evidenti, anche perché associano la mancanza o la riduzione della produzione agricola locale ad anni di gestione miope ed egoistica delle già scarse risorse idriche. Un esempio evidente è in questo senso lo sfruttamento del bacino del Tigri e dell’Eufrate, il cui flusso si è ridotto moltissimo negli ultimi 15 anni a causa di pompaggi sproporzionati, costruzione di bacini idroelettrici che non considerano l’agricoltura di chi sta a valle, consumi insostenibili e quasi nessun recupero delle acque reflue.

Per quanto riguarda l’Italia, per ora l’effetto diretto più evidente della situazione in Ucraina è senza dubbio l’aumento dei prezzi. A livello di agricoltura, come ha sottolineato in questi giorni il responsabile filiere della Coldiretti, andrebbe seriamente considerato (oltre al contrasto alla speculazione) il recupero di molti terreni abbandonati (circa 1 milione di ettari) a causa del prezzo dei prodotti coltivati: finora era molto più “conveniente” importare che produrre. Finora.

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