Lavoro. Molto più di un voto di fiducia

Il quotidiano di Confindustria saluta il voto di fiducia del Senato alla delega sul Jobs act come uno storico cambio di passo ideologico. Sindacati divisi con la Fiom che minaccia l’occupazione delle fabbriche e i giuristi democratici che si appellano alla Costituzione
Lavoro

Con tanto di plauso del capo economista del Fondo monetario internazionale, Olivier Blanchard, che conferma tuttavia previsioni fosche sull’economia e l’occupazione nel Paese, il giovane presidente del consiglio italiano, Matteo Renzi, ha ottenuto come era prevedibile la fiducia dalla maggioranza del Senato sul provvedimento che consegna un’ampia delega al governo per legiferare in materia di lavoro. Le opposizioni hanno espresso la loro impotenza davanti ai numeri con scene di protesta che Renzi ha definito «sceneggiate» e il malessere interno al partito democratico ha prodotto pochi voti contrari alla disciplina della “ditta” come la chiama Bersani ma anche le dimissioni dalla carica di Walter Tocci, il senatore che esprime l’area culturale del Centro riforma dello Stato fondato da Pietro Ingrao, culla del pensiero operaista.

La polemica sul superamento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, poteva apparire, in pieno agosto, una campagna di visibilità dell’area “moderata” guidata dal ministro Alfano e dal senatore Sacconi (Ncd) e, invece, si è palesata simbolicamente come il punto di rottura nei confronti di un sindacato diviso, con la Cgil che ha i suoi quadri organicamente legati al Pd e sa di non poter portare in piazza il prossimo 25 ottobre quella massa oceanica raccolta da Sergio Cofferati nel marzo del 2002 contro l’abrogazione della norma simbolo posta a tutela dei lavoratori illegittimamente licenziati. Già la “robusta manutenzione” operata dal governo Monti ha tolto la carica di deterrenza rappresentata dalla possibilità di reintegro per i licenziati per motivi economici ormai prevista solo nei casi di «manifesta insussistenza».

Difficile, molto difficile uguagliare quei milioni di persone radunate nella più grande manifestazione del dopoguerra pur nel clima di tensione seguente al vile omicidio del giuslavorista Marco Biagi. La federazione dei metalmeccanici della Cgil che sembrava aver aperto, con il suo segretario Landini, un tavolo di confronto autonomo con Renzi, ha sciolto ogni riserva indicendo uno sciopero e una manifestazione nello stesso giorno del prevedibile voto di fiducia al Senato che ha coinciso con il Consiglio Europeo straordinario sul lavoro convocato a Milano. Landini ha lanciato la campagna d’autunno dichiarandosi pronto a occupare le fabbriche, se necessario. Davanti a sè aveva i lavoratori della Nokia solution network, stremati e smarriti per aver ricevuto notizia degli oltre mille licenziamenti tramite una mail che annuncia l’arrivo della raccomandata e l’invito a riconsegnare portatile e telefono aziendale oltre al badge personale. Una spoliazione simbolica per la città industriale che non riesce a trattenere il patrimonio professionale di alte competenze tecnologiche. Le uniche occupazioni che finora hanno prodotto qualche risultato sono quelle necessarie ad impedire il trasferimento dei macchinari indispensabili per la produzione.

Di fatto sembra invece prevalere nella narrazione dei media e nella cultura generale un’aspettativa positiva verso il ciclo di riforme annunciato da Renzi che è salito a Milano a prendersi i complimenti dei suoi colleghi europei. Come afferma solennemente Alberto Orioli su il Sole 24 ore, quotidiano di Confindustria, l’otto di ottobre 2014 rappresenterebbe il «giorno in cui l'Italia lascia alle spalle il '900 e solennizza al Senato la presa d'atto che l'impresa non è l’“arma dei padroni”, ma il luogo dove nascono eccellenze, conoscenza, collaborazione e responsabilità».  Nello stesso tempo, l’associazione dei giuristi democratici ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per annunciare che solleverà in tutte le sedi l’incostituzionalità del decreto di delega approvato da Senato perché, secondo l’art. 76 della Carta, «l'esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principî e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti».

Insomma il governo avrebbe una sorta di “delega in bianco”, troppo vasta e indefinita sulla questione strategica del lavoro che è il fondamento della Repubblica. Da parte sua Napolitano ha già esternato a favore del coraggio necessario sul cammino delle riforme sotto l’incalzare dei molti avvisi che ci arrivano dai vertici europei e della Banca centrale europea per interventi strutturali ritenuti indispensabili per attirare investimenti internazionali in mercato del lavoro “semplificato”. Renzi lo ha già tradotto in linguaggio popolare quando intervenendo nella popolare trasmissione di Fabio Fazio su Rai tre, ha affermato che «se l’imprenditore deve fare a meno di alcune persone, siccome l’imprenditore non è uno cattivo, deve avere anche il diritto di lasciare a casa alcune persone». Come ha detto Marco Valerio Lo Prete su Il Foglio del 30 settembre, stiamo assistendo al cambiamento del  «senso antropologico del rapporto di lavoro» o, come afferma Orioli, al radicale cambio di passo ideologico provocato dalla presa di coscienza che «la patria dei diritti non è in grado di trasformarsi nella patria dei lavori».

Molto di più di un voto contrastato e dei dilemmi di un partito erede della sinistra.

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