Lascio. Anzi, no.

I campioni dello sport e la sfida più impegnativa: il ritiro dalla scena.
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Tutti siamo stati sfiorati, almeno per un attimo nella vita, dal sogno dell’immortalità. C’è chi vive quel sogno con maggiore intensità: sono gli eroi, coloro che per qualche ragione, ad esempio lo sport, hanno raggiunto la fama. Per questi, il sogno, impastato di effimera realtà, dura più a lungo: per questi, uscire dal sogno è più difficile. E può anche diventare un incubo. Per tutti, anche per i campioni, arriva il momento in cui ci si trova di fronte l’ultimo avversario: il ritiro dalla scena.

 

C’è chi, amaramente, l’ultima sfida l’ha perduta, togliendosi la vita, non riuscendo più a darle un senso nei giorni del tramonto. Il labirinto cieco della depressione ha soffocato Di Bartolomei, difensore della Roma, quel “Nino” del calcio di rigore della canzone di De Gregori, sentitosi incapace di tirarne l’ultimo. Pantani aveva cercato di fuggirne con i paradisi artificiali degli stupefacenti. Altri ciclisti hanno trovato l’ultima fuga: Jemenez, Fois, Gelfi, Ocana… Alcuni l’hanno solo cercata: l’irrequieto Vandenbroucke o il geniale Obree, l’inventore della bici fatta con i pezzi di lavatrice con cui centrifugò il record dell’ora di Moser.

 

Quella sfida che rischia ogni giorno di perdere Gascoigne, l’hanno già persa George Best, il funambolo che ha dribblato irridente ogni avversario e, tristemente, anche sé stesso, o Garrincha, “uccellino fragile” che il calcio rese grande nonostante la polio, ma alla cui fama non seppe sopravvivere. L’ha persa, di fronte all’abisso della solitudine, Jacques Majol, l’uomo che gli abissi aveva sfidato e vinto; l’hanno persa Eugenio Monti, il “rosso volante” del bob, e Fausto Radici lo sciatore campione anche con un solo occhio.

 

C’è chi quella sfida ha cercato di allungarla oltre misura, per non voltare pagina, come George Foreman nel pugilato, campione del mondo dei massimi a 45 anni. Irresistibile è il fascino della competizione per campioni come Lance Armstrong nel ciclismo, Josefa Idem nella canoa, Paolo Maldini nel calcio.

 

C’è chi ha scelto di uscire di scena prima del tempo, da vincente, anticipando, quasi temendola, l’ultima sfida. «Il fuoco si è spento», aveva dichiarato, senza tristezza, quasi con sollievo, la tennista Justine Henin, appendendo, a soli 25 anni, da numero uno del mondo, la racchetta al chiodo. Un anno prima, a 24 anni, aveva fatto la stessa scelta la sua collega Kim Clijsters, pure lei numero uno. Tormentate vicende personali hanno intaccato in loro forza ed entusiasmo.

 

«Il volley non era il mio unico obiettivo per la vita». Leonardo Morsut, 26 anni, schiacciatore a Trento ed in nazionale, un contratto da 450 mila euro, laureato in biotecnologie, ha lasciato lo sport per fare il ricercatore, a mille euro al mese, presso il laboratorio di embriologia dell’università di Padova, iscrivendosi pure a matematica. «Rimandare significava perdere per sempre un’occasione importante: il laboratorio è un team forte e prestigioso». Di fronte allo sconcerto di tanti ha commentato: «Molti immaginano che uno sportivo professionista possa godere di successo e guadagni, per cui obiettivi diversi appaiono una stranezza: tanta attenzione è sintomo di una degenerazione nella scala dei valori nella nostra società. In una situazione di normalità questa storia non sarebbe apparsa così stravagante».

 

Vengono alla mente le parole di un grande del salto triplo, Jonathan Edward: «A volte, prima di addormentarmi, mi viene da pensare che mi guadagno da vivere facendo dei balzi. Faccio qualcosa di meritevole? Non credo: è l’inutilità assoluta. I medici che vanno in Ruanda fanno qualcosa di speciale, mentre io salto nella sabbia…».

 

Molti riescono ad uscire di scena con semplicità, ridando, senza traumi, sapore alla normalità. C’è chi, e sono molti, ha voltato pagina senza cambiare vita sedendosi sulla panchina di quel campo di gara che è la loro esistenza. Per cogliere sempre nuove gratificazioni allenando, dirigendo, trasmettendo l’arte alle giovani generazioni. Qualcuno ha ritrovato successo nello sport professionistico: altri hanno scelto di lavorare lontano dai riflettori, allenando solo bambini. O carcerati, tossicodipendenti, immigrati. O disabili, fisici e mentali, come Marco Calamai, che per loro ha lasciato la panchina professionistica del basket.

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