Lapierre: i poveri, la gioia

Quando la letteratura racconta (e aiuta) gli ultimi. Si è spento un giornalista e filantropo straordinario, autore di libri di successo, che ha speso la sua vita per chi non ha nulla. Il rapporto con Madre Teresa di Calcutta e la colossale macchina umanitaria
Dominique Lapierre (AP Photo/Altaf Qadri, File)

Non è stata Madre Teresa di Calcutta – nei primi anni Ottanta – a farne uno scrittore, ma molto probabilmente è stata lei con la sua India povera e scalza a dargli quel supplemento d’anima, quella forte vibrazione interiore, di cui la sua splendida parola letteraria aveva bisogno per entrare definitivamente nel cuore del mondo, per essere – lui – finalmente un autore globale, inevitabile, incredibilmente originale.

Parliamo naturalmente di Dominique Lapierre (1931-2022), morto domenica scorsa, scrittore, giornalista e filantropo francese, che tutti ricordano almeno per il suo best seller più famoso, La città della gioia (1985 – i suoi libri sono pubblicati in Italia da Mondadori), che sette anni dopo sarebbe diventato un film di Roland Joffé.

Lapierre è autore di altri numerosi romanzi memorabili, alcuni dei quali scritti con Larry Collins, il suo amico americano inseparabile, come Parigi brucia?, da cui è stato tratto l’omonimo film di René Clément (1966), Alle cinque della sera (1967), Gerusalemme! Gerusalemme! (1972), Stanotte la libertà (1975, dedicato all’indipendenza dell’India), Il quinto cavaliere (1980). Dopo oltre vent’anni Collins e Lapierre erano tornati a collaborare per New York brucia? (2004).

Lapierre ha continuato anche da solo a scrivere e pubblicare libri di grande successo, come Più grandi dell’amore (1990, sull’Aids), Mille soli (1997), Gli eroi della città della gioia (2006), C’era una volta l’Urss (2005), Luna di miele intorno al mondo (2006), Un arcobaleno nella notte (2008, sul Sudafrica, scritto con il nipote Javier Moro), Gli ultimi saranno i primi (2012).

Nel 2001, con lo stesso nipote, ha firmato anche Mezzanotte e cinque a Bhopal, centrato sulla tragedia della fabbrica chimica indiana. Molti di questi libri sono diventati poi anche film, che hanno contribuito tantissimo ad allargare il suo pubblico di lettori.

Ma torniamo alla “città della gioia”, quella Calcutta che gli avrebbe cambiato la vita per sempre e dato alla sua penna una sensibilità rara, una percezione più viva e partecipe delle contraddizioni del pianeta e la sensazione intollerabile dello scandaloso divario fra Paesi ricchi e Paesi poveri.

Lui era già soddisfatto della sua vita gioiosa e avventurosa, del suo successo internazionale come autore di bestseller e della sua condizione decisamente da benestante. Ma quando ha conosciuto l’India e Madre Teresa è rimasto come stregato nel profondo: Lapierre conosce i poveri (eroi, li chiama) che reagiscono al loro crudo destino con un sorriso, senza perdere i valori della ricchezza umana, della solidarietà, della speranza.

È per loro che lo scrittore sente un autentico spirito di amore e di condivisione. Decide perciò di organizzare e mettere in moto una colossale macchina umanitaria, per tradurre le sue parole scritte (e anche la sua mega villa) in un nuovo centro per lebbrosi o in un nuovo pozzo per l’acqua potabile.

Tanto impegno e tanto successo non potevano che essere accompagnati da accuse di protagonismo, ma lui proseguì – sereno e ottimista – sulla sua strada, anzi su quella tracciata da Madre Teresa, che si era messa al servizio degli ultimi fra gli ultimi.

Sapeva che la vita gli aveva dato tanto, ma sentiva il bruciante desiderio con sua moglie di restituire qualcosa di grande alla vita stessa, di donare il più possibile le sue ricchezze agli altri facendo quello che sapeva fare meglio: scrivere libri e articoli, tenere conferenze, rilasciare interviste.

Ci resta l’eredità e l’esempio di un uomo che ha cercato di capire i grandi sconvolgimenti della Storia e che ha speso tutto sé stesso per gli ultimi. E che ha fatto sue le parole della santa di Calcutta: «Tutto ciò che non è donato, è perso».

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