La vocazione

Quando ci accade di visitare una cittadella del Movimento dei focolari – penso in particolare a Loppiano – ciò che suscita la più grande impressione nel nostro animo è la presenza in essa di molti giovani. Vi sono giunti dai luoghi più vari del mondo, scelti dall’amore personale di Dio per ciascuno di loro che li ha condotti lì a vivere una profonda esperienza spirituale. E quando si ascoltano parlare, si percepisce, al di là delle loro diverse culture, idiomi e tradizioni, qualcosa di unico e che, al tempo stesso, li accomuna: è la chiamata di Dio. Meditiamo allora un po’ su di essa che, oso dire, è la cosa più bella e misteriosa e sacra di un’esistenza umana. La chiamata La chiamata di Dio fa sbocciare e fiorire, in colui che l’accoglie, la vita. È Dio che accende in quel cuore l’amore, un amore soprannaturale che provoca gli stessi effetti di un amore umano, anche se molto più belli e grandi, molto più fini e delicati, proprio perché è un amore rivolto a Qualcuno che è invisibile agli occhi dell’uomo. La persona innamorata di Dio forse neppure si accorge di quanto egli la va trasformando dal di dentro, mentre la conduce verso una pienezza umano-divina che sempre più diventa percepibile da coloro che trattano con lei. La sua vita ormai non è più quella di prima. Ogni cosa – la famiglia, il lavoro, la carriera – acquista per lei una dimensione diversa, una importanza relativa che talvolta può generare anche l’altrui incomprensione o essere tacciata di ingenuità. È che Dio le ha fatto scoprire e sperimentare il suo amore, chiamandola ad un’altrettanto radicale e totale risposta d’amore. E qui si vede chiaramente come l’autentica vocazione è estranea ad ogni ricerca di sistemazione umana, ad una progettazione del proprio avvenire secondo criteri di convenienza, come si trattasse, ad esempio, di orientarsi verso la scelta di una certa attività anziché di un’altra. La vocazione è infatti essenzialmente un rapporto: il rapporto che passa fra Persona e persona, fra una persona e Dio. Di fatto, è così che il Vangelo ce la presenta in molti meravigliosi episodi, ed è perciò attingendo ad essi che ne evidenzierò alcuni aspetti. Sulle rive del lago di Tiberiade Cominciamo dal racconto della chiamata degli apostoli. All’inizio della sua predicazione, passando lungo il lago di Tiberiade, Gesù vide Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni. Sappiamo dal Vangelo che egli già li conosceva, poiché Giovanni il Battista li aveva inviati da lui, il Messia atteso. Anzi, due di loro erano andati a trovarlo nella casa dove abitava, ma il momento della chiamata non era ancora giunto per loro. In altri termini diremmo che essi avevano conosciuto l’Ideale, Dio, ma non avevano ancora sentito la vocazione a seguirlo. È quanto accade invece in quel particolare momento in cui Ges li chiama. Ed essi, lasciato tutto lo seguirono (Mt 4, 18-22; Lc 5, 11). Lasciarono tutto. Lasciarono la famiglia: Giacomo e Giovanni il padre, Pietro forse la moglie e i figli. Lasciarono quanto possedevano: le reti e la barca, tutti i loro beni. Questo loro concreto lasciare tutto per seguire Gesù ci schiude qualcosa di veramente profondo: ci dice il loro darsi liberamente e totalmente a lui che li aveva personalmente scelti e chiamati. Ed è ciò che li rende degni e atti alla loro particolarissima vocazione, quella di fondare la chiesa, di esserne le colonne viventi, gli apostoli appunto, il cui ministero si sarebbe perpetuato nei secoli attraverso i vescovi. I primi discepoli Ma chi erano questi primi discepoli di Gesù? Possiamo presumere che fossero appartenenti al ceto medio, quindi, in certo senso benestanti, dal momento che erano proprietari, diremmo, di una piccola azienda. Niente invece ci è stato tramandato riguardo alla loro conoscenza e pratica religiosa. Probabilmente, come era allora consuetudine, al pari di tutti i bambini ebrei erano stati istruiti nelle Scritture e avevano frequentato la sinagoga. Ma nessuno di loro, ad eccezione dell’apostolo Paolo, che verrà comunque accolto in seguito, era stato coltivato in qualche insigne scuola rabbinica, né eccelleva per doti o ruoli particolari. Fra di loro si staglia invece Matteo. Era un gabelliere, esercitava cioè una professione, quella di riscossore delle imposte, che non godeva allora di una buona reputazione, sia per la sua connivenza con il potere romano, tanto che chi vi si dedicava era ritenuto un collaborazionista con le truppe di occupazione, sia per i molti abusi che vi erano connessi. Eppure Gesù chiama anche lui: Andando via di là, Gesù vide un uomo seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: Seguimi. Ed egli si alzò e lo seguì (Mt 9, 9). Ma, fra quelle dei Dodici, vi è ancora un’altra chiamata su cui conviene soffermarsi. È la chiamata di Giuda. Sappiamo dai Vangeli che egli era un uomo attaccato al denaro, al punto di arrivare, pur di guadagnarne, a tradire Gesù: un atto, questo, dalle conseguenze immani che lo farà cadere nella disperazione (cf. Mt 27, 35). È l’aspetto tragico della vocazione di Giuda. Anche Pietro, sebbene in altro senso, è arrivato al punto di tradire Gesù (cf. Mt 26, 69-75), ma egli non è caduto nella disperazione perché il suo amore, la sua fiducia in lui erano così profondi da dargli la forza di chiedere perdono. Come da un piccolissimo seme, si vedono dunque germogliare da queste prime dodici chiamate tutte le possibili vocazioni. In certo senso, infatti, i dodici apostoli sono i prototipi dell’intera nuova umanità, mirabilmente significati in quei dodici capostipiti delle tribù del nuovo Israele, che è la chiesa, di cui parla il libro dell’Apocalisse (cf. Ap 21,9-14). Il giovane ricco Le vocazioni che fin qui abbiamo richiamato, sono state tutte seguite da una risposta positiva. Ma ve ne è una, su cui il Vangelo più ampiamente si diffonde, alla quale è seguita una risposta negativa. È la chiamata del giovane ricco. Un giovane, certamente buono e che già conosceva Gesù, gli si avvicina e gli domanda che cosa deve fare per ottenere la vita eterna. Gesù gli ricorda allora l’osservanza dei comandamenti, così come erano espressi nella Legge dell’Antico Testamento, con al cuore l’amore di Dio e l’amore al prossimo. Conosciamo la risposta del giovane buono: Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza . L’evangelista Marco finemente annota che Gesù, fissatolo, lo amò (Mc 10,21). Certamente Gesù amava già quel giovane, ma in quel momento lo ama di un amore particolare, sì da rivelargli la sua personale chiamata: Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in ciclo; poi vieni e seguimi (Mc 10,21). È, in certo modo, la stessa chiamata che Gesù aveva rivolto agli apostoli. Ma quanto diversa la risposta! Il giovane, riferisce il Vangelo, incapace di distaccarsi dai molti beni che possedeva, se ne andò rattristato. È allora che Gesù pronuncia quelle sue famose parole: È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio. E alla domanda costernata dei discepoli: E chi mai si può salvare?, Gesù risponde: Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile presso Dio (Mc 10, 25-27). Emerge con chiarezza, da questa breve ma intensa narrazione, il motivo per cui quel giovane rinuncia a seguire Gesù: perché era ricco, ricco di beni materiali. Ora, ciò che fa delle ricchezze un ostacolo è il fatto che esse generano in chi le possiede un’eccessiva considerazione di sé, un senso di potere e di autosufficienza, insieme ad una più o meno esplicita pretesa di stima, rispetto e timore da parte degli altri. Anche noi, pur non possedendo considerevoli beni materiali, possiamo cadere nel facile inganno di sentirci ricchi, e questo perché non siamo spogli di noi stessi, delle esperienze umane fatte, della cultura acquisita, delle possibilità di carriera offerte. Di fatto, tutto questo può costituire quella ricchezza che, insinuandosi a poco a poco nel cuore dell’uomo, giunge a soffocare ogni vera profonda chiamata di Dio, impedendone così la risposta. Ma il brano evangelico del giovane ricco ci invita a meditare su un ulteriore essenziale aspetto. Possiamo cioè chiederci: quali sono le conseguenze di un’eventuale non corrispondenza alla vocazione? Alcuni ritengono che, quando la chiamata di Dio è così esplicita e inequivocabile, è giocoforza seguirla. Senza dubbio questo è vero, ma mi sembra che le parole conclusive di Gesù: Ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio, lascino intravedere un’inattesa possibilità di riscatto e dunque di salvezza. Al tempo stesso, quelle parole manifestano che Dio si attende da noi una risposta autentica e libera: Dio lo si segue non per timore o per qualsiasi altro motivo umano, ma per Lui, per un ritorno d’amore al suo amore che ci ama per primo. È allora che la chiamata diventa, in certo senso, vera e propria vocazione, quando vi è la risposta di colui che è chiamato. Avviene cioè come nel matrimonio, che sussiste solo nel sì congiunto e vicendevole dello sposo e della sposa. Così, analogamente, sebbene su un piano molto più alto, lo sguardo d’amore di Dio, unito alla libera risposta d’amore della persona chiamata, da vita a quello sposalizio spirituale in cui è, appunto, l’essenza della vocazione a seguire Gesù.

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