La vera sfida è “Restare Umani”

Una sfida di cui non abbiamo, forse, consapevolezza, ma che viviamo tutti i giorni sotto molteplici profili e dimensioni, dalla generatività alla morte, passando per lo sviluppo educativo: l’esigenza di “Restare Umani” di fronte all’incalzare della tecnologia e di nuovi parametri valoriali. Ed è proprio questo il punto di partenza e al tempo stesso l’obiettivo del libro “Restare Umani. Sette sfide per non rimanere schiacciati dalla tecnologia, edito da Città Nuova e scritto a quattro mani dal sociologo Giuliano Guzzo e dallo psicologo Marco Scicchitano. Città Nuova li ha intervistati per approfondire alcune tematiche essenziali del volume: due voci a confronto per scoprire i cortocircuiti della contemporaneità.  

Un libro nato dall’incontro di due professionalità sì diverse, ma accomunate dallo studio sull’essere umano: partendo dalla vostra esperienza –  sia umana che professionale – esiste un vero antidoto alla “disumanizzazione”?

Giuliano Guzzo: «Ne esistono tanti, per fortuna. Il più efficace è probabilmente la presa di coscienza dei processi disumanizzanti del nostro tempo. Siamo testimoni, da questo punto di vista, di un epocale paradosso, che vede gli uomini tecnologicamente sempre più evoluti, ma antropologicamente sempre più in difficoltà, incapaci di riconoscere sia le minacce di cui sono oggetto sia il fatto, forse ancora più inquietante, che i primi responsabili di questi rischi siamo noi stessi, stretti nella morsa edonistica e di un certo delirio prometeico».

Marco Scicchitano: «Si, l’antidoto vero è l’esperienza di quanto può essere bella e significativa la vita vissuta nella sua limitatezza e fragilità, nel suo pieno dispiegarsi in relazioni d’amore; l’antidoto è “il meglio”. Ma non sempre questo è possibile. Ci vuole consapevolezza e la volontà di custodire ciò che è essenziale sapendo che a volte l’adattamento all’ambiente e allo sviluppo produce risultati che elidono la qualità di vita. Studiando e acquisendo un vasto bagaglio di esperienza come clinico, ritengo che una delle caratteristiche dell’essere umano è l’essere una specie incredibilmente adattabile. Il periodo nel quale ha bisogno di cure da parte dei care-giver è enorme, se lo confrontiamo con altre specie di mammiferi e alcuni psicologi evoluzionisti suggeriscono che questo ampio spazio di latenza, prima dell’autonomia, sia il segno biologico della necessità di adattarsi al contesto concreto nel quale dovrà vivere e apprendere dai suoi simili – ma anche dalle prove che farà in un ambiente protetto – le migliori strategie di sopravvivenza. Se questo è un bene dal punto di vista della sopravvivenza, è al tempo stesso un rischio perché può portare ad elidere porzioni di “umanità” per adeguare la conformazione al pattern di condizioni di vita circostante. Questo meccanismo risulta evidente nella storia individuale di una persona. Immaginiamo che viva in un contesto familiare dove la figura che dovrebbe fornire cure e affetto è depressa e ritirata emotivamente. Spesso questo ambiente pone le condizioni per lo sviluppo di una personalità evitante, non richiedente, che sentirà poco i suoi bisogni di cura grazie ad un meccanismo autoregolatorio che ne preserva l’integrità a scapito dello scambio interpersonale seguendo una regola implicita come: «meglio non chiedere proprio che essere delusi».  Se questo meccanismo consente al bambino di formarsi una personalità autonoma e di minimizzare il costo emotivo dell’anafettività genitoriale, in età adulta questo potrebbe comportare la difficoltà ad entrare in sintonia affettiva intima con la persona amata, a lasciarsi accudire nel momento del bisogno, a saper entrare in contatto con le proprie fragilità e richieste di attenzione, riducendo in tal modo la qualità delle relazioni che può instaurare. L’adattamento può elidere la qualità della vita: sia quella individuale, sia quella di specie. Banalmente possiamo osservare lo sviluppo della tecnologia della comunicazione con i messaggi istantanei e il loro corredo di surrogati emotivi come le GIF o le emoticon. A questo sviluppo dilagante è seguita una riduzione della capacità di intrattenere scambi comunicativi dai ritmi lenti, in presenza l’uno dell’altro, con la relativa possibilità di entrare in empatia grazie ai messaggi non verbali e alla interpretazione implicita dello stato interno dell’altro grazie a sistemi di decodifica come i neuroni specchio. Un adattamento può elidere la qualità di vita, siamo noi a dover decidere a cosa fare spazio».

L’avanzare della tecnica rappresenta di per sé un fenomeno positivo: secondo voi è possibile declinarla in funzione delle esigenze dell’essere umano senza il rischio di rimanerne prevaricati?

G.G.: «Certo che sì. L’importante è non perdere mai di vista il monito kantiano tale per cui l’uomo è sempre fine, mai mezzo. La gran parte dei pericoli che ci attendono, in aggiunta a quelli già presenti, deriva proprio da questo, ossia dal declassamento della dignità umana; dall’idea che la vita non sia sempre degna di essere vissuta, ma lo sia solo se conforme a certi parametri e qualora soddisfi alcuni standard sotto i quali prende il sopravvento quella che Papa Francesco chiama “cultura dello scarto”».

M.S.: «Sicuramente sì. Ci viene in aiuto in questo senso la millenaria capacità di cogliere ciò che è essenziale da parte dei miti greci, che riescono come ogni altra storia archetipica a cogliere elementi profondi e duraturi della vita umana. Se in un discorso faccio riferimento ad una storia che parla di ali di cera, la maggior parte delle persone ricorderà Icaro come personaggio protagonista, ma così non è. Il fascino che l’uomo subisce dall’atteggiamento prometeico ci fa dimenticare che Icaro è semplicemente un giovane ardimentoso quanto sciocco mentre il vero protagonista è il padre, Dedalo. Entrambi, Icaro e Dedalo sono prigionieri del labirinto che lo stesso Dedalo ha costruito grazie alla sua maestria ed abilità. Hanno desiderio di fuggire e librarsi in alto, al di sopra delle tortuose vie senza uscita che la loro stessa mente ha prodotto e questo è un atteggiamento sano, volto a superarsi e trascendersi. Dedalo produce il labirinto che lo intrappola ed è lo stesso Dedalo a costruire le ali che lo librano al di sopra di sé stesso, fino ad arrivare sano e salvo in una nuova terra dove continuare a vivere. Eppure chi permane nella memoria solitamente è Icaro, giovane e per questo forse poco attento e saggio, poco esperto, non “conosce”, e più che rimanere in contatto con la consistenza della materia e della realtà preferisce agire in base alla sua sconfinata e illusoria volontà di elevarsi senza misura. Se il viaggio di Dedalo è una parabola che passa dal cielo per riatterrare sulla terra dove abitare dopo essersi liberato delle ali – perché alla terra noi apparteniamo – il viaggio di Icaro è una retta orientata verso un indefinito “oltre” che non arriva mai, che liquefa e uccide l’umano».

Tra le sette sfide che menzionate nel libro, quale ritenete sia la più difficile da affrontare e perché?

G.G.: «Forse quella della sessualità, affrontata nel terzo capitolo, e più specificatamente quella dell’educazione di cui hanno bisogno le nuove generazioni. Anche sessuale, per carità, ma in primo luogo valoriale. Stiamo riducendo il processo educativo ad un libretto delle istruzioni, di cui basta illustrare le pagine e il gioco è fatto. Niente di più falso e fuorviante. L’educazione, che è il campo in cui si gioca la rinascita o la disfatta del nostro sistema sociale, è qualcosa di molto più elevato. Perché chiama in causa i valori, la vocazione di ognuno, i testimoni, i maestri».

M.S.: «Penso che le diverse sfide siano portatrici di peculiari aspetti che possono rappresentare difficoltà. Penso alla sfida sulla generatività umana, dove intervengono anche gli interessi economici delle aziende private che spingono attraverso pubblicità e ricerche il diffondersi di una cultura del nascere artificiosa e bisognosa dell’intervento tecno-medico. Penso alla “morte”, di per sé tabù individuale e collettivo, che trova processi elaborativi nella nostra cultura occidentale attraverso le esasperazioni delle Apocalissi-zombie e in genere dei film di Blockbuster, dei video giochi, della rappresentazione estetica del macabro. A queste forme espressive, pur necessarie, è importante associare una ragionata presa di consapevolezza della condizione che pone ciascun uomo di fronte al suo limite ultimo: la morte».

Nel libro fate spesso riferimento alle soluzioni adottate all’estero per fronteggiare il binomio “umanità/tecnologia”: esiste in Europa un modello univoco a cui possiamo ispirarci?

G.G.: «Non direi. L’Europa e in generale l’Occidente attuali hanno ben poco da insegnarci. Esistono dei riferimenti, sì, ma non sono politici né geografici, bensì valoriali. Penso in particolare alla concezione personalista dell’uomo, e cioè all’idea che la dignità umana sia connaturata all’essere umano, la cui esistenza è quindi non solo sempre degna di essere vissuta ma anche sempre meritevole di essere promossa, tutelata e soprattutto amata».

M.S.: «Si, esiste un modello univoco ed è quello espresso da Papa Benedetto XVI nel miliare discorso tenuto al parlamento tedesco nel 2011: “Il concetto positivista di natura e ragione, la visione positivista del mondo è nel suo insieme una parte grandiosa della conoscenza umana e della capacità umana, alla quale non dobbiamo assolutamente rinunciare. Ma essa stessa nel suo insieme non è una cultura che corrisponda e sia sufficiente all’essere uomini in tutta la sua ampiezza. Dove la ragione positivista si ritiene come la sola cultura sufficiente, relegando tutte le altre realtà culturali allo stato di sottoculture, essa riduce l’uomo, anzi, minaccia la sua umanità. Lo dico proprio in vista dell’Europa, in cui vasti ambienti cercano di riconoscere solo il positivismo come cultura comune e come fondamento comune per la formazione del diritto, riducendo tutte le altre convinzioni e gli altri valori della nostra cultura allo stato di una sottocultura. Con ciò si pone l’Europa, di fronte alle altre culture del mondo, in una condizione di mancanza di cultura e vengono suscitate, al contempo, correnti estremiste e radicali. La ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio. E tuttavia non possiamo illuderci che in tale mondo autocostruito attingiamo in segreto ugualmente alle “risorse” di Dio, che trasformiamo in prodotti nostri. Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto” […] “Vorrei però affrontare con forza un punto che – mi pare – venga trascurato oggi come ieri: esiste anche un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli rispetta la natura, la ascolta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana”.
Il modello che se ne evince è un umanesimo positivo che potrebbe fungere da esempio per gli sviluppi teoretici e le simulazioni della società del domani».

Guardiamo al futuro: nasceranno nuovi bisogni umani che la tecnologia non riuscirà a soddisfare?

 G.G.: «I veri bisogni umani non dipendono dalla tecnologia, essendo iscritti nel cuore di ogni uomo. Da questo punto di vista la tecnologica, come in parte già ha fatto, più che soddisfare bisogni ne crea, allo scopo di rendersi sempre più centrale e indispensabile. Ma i veri bisogni di cui l’uomo necessità sono ben altri, e riguardano il suo perenne desiderare il Buono, il Giusto e il Bello. Viviamo di infinita mancanza, come hanno osservato fior di pensatori, ed è in questa mancanza, in questa incompiutezza – che si traduce in desiderio incolmabile – che sta tutto il limite e lo splendore dell’uomo».

M.S.: « No. I bisogni umani fondamentali sono già presenti e già oggi la tecnologia non può corrispondere pienamente anche se si stanno facendo passi enormi in tal senso. Basti pensare alla relazionalità e a quanto sia importante la capacità di prendersi cura a partire dalla conoscenza dei bisogni. In questo campo l’intelligenza artificiale con i logaritmi associativi tesi a creare profili adatti alle offerte pubblicitarie si sta specializzando sempre di più, decodificando i comportamenti espliciti ed impliciti che un individuo compie per fornirgli proposte sempre più confacenti ai suoi bisogni. Eppure, per quanto fine e stringente sarà la capacità dei logaritmi di ingabbiare le necessità umane, difficilmente riuscirà a comprendere i desideri, inesauribilmente umani».

 

Marco Scicchitano – Giuliano Guzzo, RESTARE UMANI. Sette sfide per non rimanereschiacciati dalla tecnologia. pp. 144 – prezzo: € 15,00

 

 

 

 

 

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