La priorità è dare stabilità ai governi

Dopo l'articolo di Iole Mucciconi che ha offerto una prima visione della proposta avanzata dal governo Meloni sul cosiddetto premierato, pubblichiamo un contributo di merito nel dibattito aperto alle diverse posizioni riguardo ad una riforma che sarà al centro del confronto parlamentare e nella Società. «È meglio un parlamento alterato nella sua rappresentanza ma efficace nell’affrontare i problemi del Paese, che un parlamento fedelissimo al voto espresso ma inefficace»
Meloni con i due vicepesidenti del cnsiglio, Tajani e Salvini Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Dopo il flop delle riforme istituzionali portate avanti da Matteo Renzi, concluse con il no dei cittadini al referendum confermativo del 2016 sulla riforma costituzionale e il successivo no della Consulta alla legge elettorale ad essa collegata, anche questo governo ha lanciato la propria proposta per una nuova forma di governo.

I principali obiettivi sono gli stessi di Renzi e di tutti quelli che hanno provato a riformare il sistema: dare stabilità all’esecutivo, possibilmente per un’intera legislatura; avere subito dopo le elezioni politiche una maggioranza certa tra i partiti o le coalizioni che si sono presentati alle elezioni, senza alleanze post-elettorali e senza governi tecnici o di “larghe intese”; evitare i cosiddetti “ribaltoni” durante una legislatura; favorire una sana alternanza, con possibilità per gli elettori di giudicare un governo in base ai risultati raggiunti, comparati col programma elettorale, e tutto ciò qualsiasi sia la coalizione di governo.

Per raggiungere tali obiettivi, il programma elettorale di Fratelli d’Italia parlava di “Riforma presidenziale dello Stato”, che avrebbe comportato l’elezione diretta del Presidente della Repubblica da parte dei cittadini. Il governo ha optato invece per una forma di premierato, che comporta l’indicazione del capo del governo (premier) da parte degli elettori, congiuntamente al partito o coalizione con cui il candidato premier si presenta, e che lascia al Presidente della Repubblica il ruolo di garante, pur con poteri ridotti rispetto ad oggi. Questo per venire incontro alle diverse sensibilità del Parlamento, tentando di costruire un’intesa trasversale.

Che una riforma istituzionale sia non solo opportuna ma urgente, lo dicono i dati. Dall’inizio della Repubblica in 70 anni abbiamo avuto 68 governi, con una durata media di poco più di un anno. Inoltre, anche nell’ultimo periodo, si sono dovute spesso disfare le alleanze con cui i partiti si sono presentati alle elezioni, per costruirne di nuove, talvolta con un capo del governo estraneo alla politica, come Monti e Draghi.

I problemi generati da questa instabilità sono molto rilevanti: mancanza di visione strategica dei governi; tendenza ad aumentare la spesa corrente; impasse dei governi di larghe intese o tecnici a causa delle differenze di vedute tra i partiti che li appoggiano; tempo perso per le crisi di governo e le frequenti elezioni anticipate; scarsa credibilità internazionale per il continuo avvicendarsi di premier e ministri; deresponsabilizzazione dei politici e dei partiti rispetto alle scelte di governo operate, frutto di continui compromessi.

Io aggiungerei anche l’aumento della disaffezione alla politica da parte dei cittadini che votano una coalizione, sperando che il suo programma venga attuato, e ne vedono spuntare fuori una nuova che non aveva presentato alcun programma in campagna elettorale, che lascia il posto magari dopo un anno ad un governo tecnico, che porta poi ad elezioni anticipate.

Il presidente Napolitano sferzò il Parlamento proprio per la sua incapacità di elaborare una riforma che, cambiando l’assetto della Repubblica, dovrebbe essere frutto non di una maggioranza di governo, ma condivisa da un ampio arco parlamentare.

Eppure, dopo 40 anni dalla prima Commissione Bicamerale su questo tema (Bicamerale Bozzi, 1983), siamo ancora allo stesso punto, con un parlamento incapace di elaborare una riforma condivisa. Ecco allora i tentativi di Renzi e Meloni con una riforma senza una maggioranza trasversale, con conseguente referendum confermativo. D’altra parte non ci sono alternative per chi vuole cambiare il sistema.

Le reazioni delle minoranze alla proposta del governo Meloni, ancora più aspre che al tempo di Renzi, non lasciano molto spazio alla trattativa, fatta eccezione per Italia Viva che ha espresso una certa disponibilità al dialogo. È un peccato, perché una riforma così importante e impattante sulla politica nazionale dovrebbe arricchirsi il più possibile dei diversi punti di vista.

Purtroppo non esiste un sistema perfetto che possa coniugare rappresentatività e governabilità e occorre sacrificare sempre qualcosa. Ad esempio, senza un premio di maggioranza che assicuri alla coalizione vincente la possibilità di governare, non si possono raggiungere gli obiettivi sopra esposti, a meno di non optare per sistemi completamente diversi come quello degli USA. Ovviamente un tale premio altera sensibilmente la rappresentatività degli elettori espressa col voto. Si tratta di scegliere il male minore.

A mio avviso è meglio un parlamento alterato nella sua rappresentanza ma efficace nell’affrontare i problemi del Paese, che un parlamento fedelissimo al voto espresso ma inefficace, inefficiente, se non addirittura bloccato, col rischio di ripetere più volte le elezioni, come avvenuto in questi anni in Spagna. Poi si può discutere delle modalità, dei pesi e dei contrappesi. La riforma Renzi prevedeva ad esempio il doppio turno col ballottaggio tra le due prime liste. Sembra che il governo voglia invece il turno unico. Io resterei aperto alla discussione, se davvero c’è la volontà di dialogare.

Il doppio turno andrebbe più incontro alla rappresentatività, dando la possibilità di scegliere “il meno peggio” a molti elettori che non si ritrovano nelle prime due liste. Se però la partecipazione al ballottaggio fosse troppo bassa, l’effetto sarebbe più alterante del turno unico.

Insomma, il tema è complesso, ma in 40 anni c’è stato tutto il tempo per riflettere! Spero che questa volta, in caso di referendum, gli italiani votino entrando nel merito, senza farsi distrarre da altri fini.  Mi consola il fatto che Giorgia Meloni non sta facendo l’errore che fece Renzi, cioè dire che in caso di fallimento della riforma, si sarebbe dimesso. Questo dovrebbe depotenziare la tentazione di un voto contro il governo e non contro la riforma in se stessa.

Nonostante la disillusione, non perdo ancora la speranza che le forze politiche riescano ad applicare anche in questo caso il principio di fraternità, che implica per la maggioranza ascoltare i contributi delle minoranze, e per queste ultime valutare una riforma nel merito, senza contrapposizioni strumentali o ideologiche. Sarebbe un enorme guadagno per il Paese.

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