La (presunta) mano invisibile del mercato

Un approfondimento sulla fede irrazionale nel meccanismo automatico del mercato. Seconda parte dell’intervista, sulla proposta del giuramento di Genovesi, al professor Lorenzo Sacconi, direttore di EconomEtica, Centro interuniversitario per l’etica economica e la responsabilità sociale d’impresa
Ciprioti in fila al bancomat per prelevare i soldi in vista dei prelievi bancari forzosi chiesti dall'Ue.

Sulla proposta del “giuramento di Genovesi” avanzata dalle pagine di Città Nuova si è aperto un dialogo molto interessante ( il dibattito tra Maggioni e Bruni sulle colonne di Avvenire è riportato integralmente qui) che apre scenari tali da travalicare il confronto tra specialisti.

Continuiamo il dialogo con il professor Lorenzo Sacconi, direttore di EconomEtica, Centro interuniversitario per l’etica economica e la responsabilità sociale d’impresa.

Nella prima parte dell’intervista ci ha detto che ogni proposta di giuramento viene rimossa perché si scontra con la tesi prevalente di una “fiducia cieca nelle virtù di un meccanismo che tanto funziona da solo”. Stiamo parlando della famosa “mano invisibile” del mercato?
«Certo. Sebbene sappiano che il concetto non si applichi affatto bene ad una molteplicità di situazioni, continuano a sostenere ciecamente questa credenza anche di fronte ai fallimenti degli automatismi dei mercati finanziari, che non rispettano per niente il principio della concorrenza perfetta. Chiunque ne ha esperienza sa bene che i manager agiscono in maniera opportunistica e che esistono casi eclatanti di asimmetria informativa e incompletezza dei contratti, che creano spazio perfino per i truffatori che si avvantaggiano costantemente dell’ignoranza inevitabile di tanti, anche miliardari, o delle stesse banche che si fanno abbindolare. In questo senso, si può dire che in questo convincimento irrazionale e irrealistico, che si continua a professare, c’è un atteggiamento antropologico di sfiducia nell’autonomia morale delle persone. Pur di evitare di impegnarsi nella complessità della progettazione di istituzioni sociali in grado di funzionare sulla base di norme etiche eque ed efficienti, e insieme rispettose della libertà – che inevitabilmente vanno al di là dei meccanismi della cosiddetta autoregolazione del mercato – si preferisce chiudere gli occhi e ripetere: “tanto (il mercato) funziona da solo, prima o poi funzionerà da solo….” E intanto vanno a sbattere».

Ma non è questo un atto di fede irrazionale? 
«Esatto. Sotto sotto, forse, c’è la paura ideologica di dover concepire le persone come capaci di immaginare e determinare il loro futuro tramite accordi su istituzioni, perché, in questo modo (è la fobia dei liberisti verso il cosiddetto “costruttivismo”), si potrebbe tornare a storie passate che sono fallite. Lo spettro della dittatura giacobina o comunista sembra sempre incombere come il Leviatano dello Stato che annienta la libertà individuale. Meglio credere alla favola della spontaneità e dell'automatismo dei mercati, dimenticando però che gli stessi mercati sono delle istituzioni. Bisognerebbe pensare invece a istituzioni che non vengono imposte dall’alto ma si costruiscono attraverso accordi imparziali, dal basso, attraverso l’esercizio dell’autonomia razionale delle persone. E che poi vengono fatti rispettare, in maniera endogena, attraverso la loro capacità di plasmare la reputazione e le motivazioni morali, il senso di giustizia, di chi partecipa a contratti sociali anche parziali. Penso, ad esempio, alle università che adottano autonomamente un codice di condotta, senza un intervento dall’esterno, essendo capaci di creare convinzioni e credenze che si consolidano nel tempo promuovendo l’adesione volontaria delle persone. Ma c’è dell’altro che non possiamo tacere»

Cioè?
«Nelle imprese, a proposito delle quali si ritiene che sia lecito prescindere da ogni responsabilità sociale più ampia, e quindi affermare che l’unico obbiettivo da perseguire è la massimizzazione del valore per gli azionisti – una dottrina che richiede ancillarmente l’affermazione della credenza irragionevole nel meccanismo del mercato che “si aggiusta da solo”-, ci sono esperti che siedono in consigli di amministrazione e che vengono pagati profumatamente. Queste persone, talvolta, sono là proprio perché professano questa dottrina. È un esempio eclatante dell’auto-interesse di cui parla la “dottrina” che professano, e che si applica perfettamente, e più che in atri casi, a loro stessi».

Come dice il nobel Stiglitz la cosiddetta mano del mercato è invisibile semplicemente perché non esiste…
«Il concetto di “mano invisibile” ha un senso quando si vuole dire che le dinamiche economiche basate su interazioni individuali raggiungono spontaneamente degli equilibri, ma questi, contrariamente alla famosa metafora, non coincidono affatto con l’ottimo sociale e talvolta possono essere disastrosi (vedasi le bolle finanziarie).

Si dovrebbe invece riconoscere che tra la mano invisibile del mercato e il piede grossolano dello Stato esiste tutta una serie di autoregolamentazioni che nascono nella società e dalle istituzioni sociali intermedie, attraverso forme di democrazia deliberativa e contratti sociali parziali, senza richiedere l’imposizione da parte dello Stato e senza cedere all’autoreferenzialità dei mercati».

Di fronte ad una crisi drammatica generata da certe teorie economiche non avrebbe senso, piuttosto che un giuramento preventivo, un nuovo tribunale Russell che, diversamente dagli ’60 sui crimini di guerra, sia chiamato ad emettere un giudizio morale sui crimini finanziari? 
«Un nuovo tribunale Russell esiste già, di fatto, con le pronunce autorevoli di Stiglitz e Amartya Sen che indicano gli errori che si stanno compiendo. Si tratta di moltiplicare, di fare entrare questa consapevolezza nei meccanismi di autodisciplina dei corpi intermedi come l’università, gli organi professionali o le imprese. Un codice ha bisogno di alcuni principii molto chiari, di condotte raccomandate coerenti e meccanismi di verifica indipendente. Ho la sensazione che queste cose funzionano se si collegano alle organizzazioni della società civile, a istituzioni che riflettano l’attivismo degli stakeholder. E comunque sarebbe importante anche un punto di riferimento indipendente e autorevole che dica cosa non va, perché esso produce “voice” ( farsi sentire per cambiare le cose ndr)».

Che tipo di incidenza hanno avuto gli appelli degli “economisti sgomenti” francesi o quelli dei nobel americani ad Obama, o quelli italiani verso Monti per smetterla con le politiche restrittive che rischiano di aggravare la crisi?
«I nostri appelli hanno contribuito a cambiare l’atteggiamento, ad esempio, sull’austerity e sulla Tobin Tax nel corso degli ultimi due anni di discussione pubblica dell’economia. Il problema è che i sostenitori della posizione ortodossa non accettano il confronto diretto. Fanno finta di non sentire e affermano di arrivare da soli ai nuovi giudizi sulla crisi, come se fossero toccati dall’illuminazione, non riconoscendo le tesi che altri economisti sostengono da anni. Per questi motivi è importante la sollecitazione che può arrivare dai cittadini nel porre una questione pubblica, quale il contenuto e il rispetto di un codice di etica professionale, perché obbliga gli ”esperti” – che pretendono di trarre legittimazione dall’”impact factor” (cioè dall’indice del numero cumulativo di citazioni ricevuto da una rivista) delle riviste su cui hanno pubblicato e non dalla discussione critica nella comunità scientifica nazionale e internazionale delle tesi che hanno sostenuto (vera forma di una “neoscolastica”) – ad accettare una discussione aperta e concreta sulle scelte e sulle ideologie economiche che incidono sulla vita delle persone».

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