La pace nella tempesta

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Il parlare pacato e l’aspetto sereno e quasi solenne non lasciano immaginare le vicissitudini e, direi, il martirio sofferto in tanti anni di servizio pastorale e come tessitore di pace in uno dei paesi più tormentati del Continente nero: la Repubblica democratica del Congo. È mons. Faustin Ngabu, vescovo di Goma, la città sulle rive del lago Kivu che nel gennaio scorso è stata semidistrutta dal vulcano Nyiragongo: giorni drammatici, quelli, durante i quali lo stesso presule (che ha avuto devastata la cattedrale) ha sfiorato la morte (cf. Città nuova n. 4/2002). Ecco in breve la sua storia. Nato nel ’35 in un piccolo villaggio della diocesi di Bunia, a 600 chilometri da Goma, è il primo della sua famiglia a ricevere il battesimo cristiano. Ancora catecumeno, tuttavia, durante i festeggiamenti per il 25° di sacerdozio del suo parroco, il giovane Faustin ha avvertito una chiamata. “Si cantava il Magnificat – ricorda – e questo canto così bello, sebbene non capissi il latino, mi ha così profondamente toccato che da quel momento ho avuto un solo pensiero: diventare come il mio parroco. Sì, sono convinto che all’origine del mio sacerdozio ci sia stata la Madonna”. Tra i membri della famiglia, a quel tempo ancora di religione animista, c’è chi fatica ad accettare che l’unico figlio maschio diventi prete (la madre metterà da parte le sue riserve solo dopo la sua ordinazione, avvenuta nel dicembre ’63). Maria, una presenza che sarà costante nella sua vita. Non a caso anni dopo, mentre a Roma porta avanti i suoi studi di teologia e diritto canonico, ha modo di approfondire la spiritualità squisitamente mariana dei Focolari: una preparazione ad affrontare le grandi sofferenze che lo aspettano nel suo paese? Tornato in Congo nel ’68 per sostituire un parroco che ha avuto degli attriti con un altro sacerdote, si trova a dover ricostruire la concordia tra i parrocchiani divisi. “Per la maggioranza di loro ero uno straniero, un “europeo”. Ci sono voluti quasi tre mesi per arrivare a farmi accettare dal popolo”. Ma sempre, sforzandosi di salvare ad ogni costo la carità con tutti, saprà conquistarsi i cuori di coloro che gli sono affidati. Nel ’74, lo troviamo vescovo a Goma, una diocesi dove forti sono le divisioni tribali. “Stavolta è stato necessario un anno per arrivare a una pacificazione. Anche qui, la mia forza è stato il carisma dell’unità, il sostegno ricevuto dai membri del movimento presenti in diocesi, ed anche dagli altri cristiani “. Nella situazione politica disastrosa in cui versa il paese (vedi box, n.d.r.), le sue prese di posizione per la pacificazione degli animi, la sua difesa di chi è ingiustamente accusato, gli creano molti nemici. La sua stessa vita è minacciata. “Sì, il mio agire è stato a volte frainteso, per cui sono stato accusato di molte cose: fra l’al- tro, di favorire la guerra…”. Sulle macchinazioni ai suoi danni, che hanno rischiato di spargere turbamento e scandalo anche fra i cristiani, il presule preferisce sorvolare, limitandosi a dire: “In tutte queste sofferenze personali il modello di Gesù crocifisso e abbandonato mi ha aiutato ad avere pazienza, a perdonare sempre, lui che è stato accusato ingiustamente”. E infine la catastrofica eruzione del Nyiragongo del gennaio scorso: “Un evento – continua mons. Ngabu – che mi ha molto turbato. Quale messaggio il Signore voleva dare, a me e a tutto il popolo, con quel “fuoco distruttore e purificatore”? Certo un invito a ravvedersi, “un appello alla carità, alla comunione fraterna, come pure alla pace”, come ho scritto ai miei cristiani e agli abitanti di Goma”. Prima però, nella notte successiva all’eruzione, caduto in coma diabetico, mons. Ngabu deve ricoverarsi d’urgenza nell’ospedale della sua città per poi essere trasferito in quello di Kigali, in Ruanda. Oggi Goma, pietrificata per un terzo dalla lava di quel vulcano che la gente chiama “il Generale”, offre uno spettacolo di desolazione: difficile dire se la città verrà ricostruita nello stesso sito o in un altro più sicuro. Ma l’incognita maggiore riguarda il futuro di questo paese che ha estremo bisogno di ritrovare la sua unità. “Per il momento politicamente il Congo non esiste: anche se l’amministrazione ufficiale (sostenuta dal mondo occidentale) è quella di Kinshasa, di fatto la nazione è divisa in quattro territori, ognuno con i suoi governanti”. Nel caos generale l’unica forza morale, spirituale, sembra la chiesa. Anche la comunità cattolica, tuttavia, è fatta oggetto di attacchi terroristici: l’ultimo il 24 marzo scorso, domenica delle palme, proprio a Goma. Alcuni sconosciuti lanciano due bombe tra i fedeli che stanno per raggiungere una sala adibita a chiesa, in sostituzione della cattedrale inagibile. Una di esse esplode provocando due morti (un sacerdote e una bambina) oltre a numerosi feriti. Quantunque ferito anche lui ad una gamba, mons. Ngabu presiede ugualmente alla celebrazione eucaristica, invitando i cristiani a pregare per le vittime e per ottenere il dono della pace. Il discorso torna ancora su Maria, a proposito delle sue apparizioni susseguitesi negli anni Ottanta aKibeho, in Ruanda; apparizioni ora riconosciute dalla chiesa africana, che hanno prodotto conversioni, incremento di fede, vocazioni in quel paese e nelle nazioni limitrofe. “A Kibeho la Madonna ha voluto darci un avvertimento: se non ci si converte, se non si fa penitenza, qui scorrerà sangue. Un messaggio che è stato confermato dai massacri perpetrati in Ruanda, nel Congo e in tutta la regione dei Grandi Laghi, ed è più che mai attuale. “Verso la metà di maggio noi vescovi del Congo, Ruanda e Burundi ci riuniremo a Kigali e faremo un pellegrinaggio a Kibeho per chiedere perdono alla Madonna per aver disatteso il suo materno ammonimento, per affidarle l’evangelizzazione dei nostri paesi e ottenere la pace per essi”. È questa la speranza di mons. Ngabu. Un paese travagliato Dall’epoca della sua indipendenza dal Belgio (’60), la nuova Repubblica del Congo non ha ancora trovato pace. L’intervento militare dell’Onu, la secessione del Katanga, l’assassinio del premier Lumumba, la presa del potere da parte di Tschombe sono solo le prime tappe di una guerra civile che è costata finora tre milioni di morti. Nel 1971, in seguito al colpo di stato che portò alla presidenza il generale Mobutu (nella foto), la Repubblica assunse il nome di Zaire. Ma la sua politica volta a favorire le multinazionali belghe, olandesi e statunitensi provocava il riacutizzarsi della guerriglia nelle regioni orientali del paese, dove si trova gran parte delle risorse minerarie. Il rifiuto di Mobutu di avviare un qualche processo di democratizzazione e di lasciare il potere, anche dopo che l’esercito si era schierato con l’opposizione, gettava la nazione, già duramente provata dalla situazione economica, nel caos istituzionale (nel ’94 quattro governi si contendevano la guida dello Zaire), mentre le regioni periferiche si rendevano di fatto autonome. Le elezioni previste per il ’95 erano rimandate a causa dell’aggravarsi del clima di tensione provocato soprattutto dall’enorme numero di profughi affluiti dal Ruanda e dal Burundi. Nel maggio ’97 Laurent Kabila esautorava Mobutu e proclamava la Repubblica democratica del Congo, ma l’anno successivo la guerra civile vedeva il coinvolgimento anche di Ruanda e Uganda dalla parte dei rivoltosi, Angola, Namibia e Zimbabwe a favore di Kabila. Solo nel luglio ’99 veniva firmato fra i rispettivi leader un accordo per il cessate il fuoco. I tentativi di porre fine alla guerra restavano comunque inutili: per tutto il 2000 proseguivano gli scontri tra esercito governativo e ribelli della Coalizione democratica congolese (Rcd) appoggiati dall’Uganda e dal Ruanda. Nel 2001 Kabila veniva assassinato durante un tentativo di colpo di stato e gli succedeva il figlio Joseph. Oggi la Repubblica democratica del Congo è un paese in ginocchio, di fatto non governato, dove i problemi economici sono gravissimi e la corruzione e la mancanza di legalità hanno invaso ogni settore della vita. C’è però chi crede ancora che la soluzione non stia nelle armi e che la nazione possa sopravvivere indivisa grazie ai negoziati tra tutte le parti politiche e sociali: uno sforzo di dialogo che, pur fra alterne vicende, non s’è mai dato per vinto.

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