La malattia, la morte e la vita nella prospettiva di un medico.

Anna Fratta

Dottoressa Fratta, nel suo articolo ci presenta l’essere umano come creato a immagine di Dio, di cui porta l’impronta; anche a livello del DNA lei riscontra delle informazioni che aiutano a cogliere un significato profondo, trascendente l’uomo, che regola la vita del suo essere Persona: ce lo può spiegare?

 

Spesso, il corpo umano è visto come un complesso di cellule, tessuti, organi con determinate funzioni, reazioni biochimiche. In una parola, un oggetto da sperimentare, da studiare.

È questa una visione dell’uomo organicistica-funzionale che, partendo da un approccio scientifico-tecnico, poggia su un principio conoscitivo positivista nel quale si afferma che il reale è ciò che è sperimentabile. Viene così, in certo modo, denaturata la stessa natura dell’uomo in un tentativo di arrivare a una “naturalizzazione” [cioè ad una riduzione della natura umana ad una “natura” indistinta, con la perdita di ciò che è specificamente umano. NdR] dell’uomo stesso, dimenticando che l’essere umano, è un unicum strutturato in spiritualità e corporeità. Non è, certo, solo un’entità biologica, ma un essere che la trascende.

È degli esseri umani la capacità di discernere e di amare; la moralità; la responsabilità individuale; la capacità di conoscere; la creatività; la capacità di relazionarsi tra loro e di avere un rapporto personale, diretto con Dio, solo per accennare ad alcuni valori. Sono tutti questi valori che sfuggono, in certo modo, alla sperimentazione scientifica, cosicché una parte essenziale e centrale dell’esperienza umana si colloca al di fuori della scienza stessa.

L’uomo è un mistero nella sua unità inscindibile, pur nella complessità delle sue dimensioni: la struttura fisica e l’interiorità spirituale. È un mistero che, forse, non riusciremo mai a scandagliare fino in fondo, perché tocca il mistero stesso di Dio.

Se guardiamo, poi, all’uomo come una creatura che un Dio uni-trino ha voluto a sua immagine, imprimendo in essa la sua legge trinitaria, di amore pericoretico, di comunione e di relazione, perché possa essere in un rapporto diretto con Lui, come potremmo, allora, pensare che Dio, creando l’uomo, abbia impressa l’orma trinitaria solo ad una parte di esso: la spirituale?

L’uomo è un quid unum e come tale indivisibile. Questo ha una sua logica conseguenza. Se il corpo non è solo una parte dell’uomo, ma è un tutt’uno con lui, esprime e presenta tutto l’uomo – è attraverso la sua corporeità che l’essere umano può vivere, agire, relazionarsi –, allora tutto nell’uomo dovrà avere un’impronta trinitaria, sia nella parte corporea che nella parte spirituale, anche se con modalità diversificate, perché su due piani diversi – lo spirituale e il fisico –, ma sostanzialmente uguali. E il fatto che la legge trinitaria sia impressa nel DNA dell’uomo può trovare conferma anche nello studio della sua fisicità, come ho tentato di mettere in luce nel mio articolo.

 

 

Di fronte alla malattia, il prendere consapevolezza di questo piano biologico volto a tutto l’organismo, più che alla singola cellula, quali implicazioni può avere nella vita professionale di un medico? E in quella di un paziente?

 

Penso che possa avere un’implicazione fondamentale.

La medicina è una disciplina che affonda le sue radici nel mistero stesso dell’uomo, nella sua unità inscindibile. L’uomo, pur nella sua complessa struttura, è un’unità, per cui la malattia, attaccandolo da una qualsiasi delle sue dimensioni, attacca tutto l’uomo.

Spesso mi sono chiesta quale sia il significato ultimo della malattia, quale il suo valore e che ruolo svolga nella vita dell’uomo.

Cercare di vedere nel malato, prima di tutto e soprattutto, una persona che soffre, che chiede aiuto; un essere che va rispettato nella dignità, anche della sua corporeità, m’ha sempre aiutato a considerare la malattia in una prospettiva più ampia.

Ogni malattia, qualsiasi essa sia, determina sofferenza, come una specie di lacerazione interna, e compito del medico dovrebbe essere, oltre che cercare di guarire, anche quello di aiutare il malato a comprenderne il senso, il che significa, in ultima analisi, aiutare l’uomo a comprendere se stesso.

La malattia diventa allora una sfida per ambedue, medico e paziente, capace, come ho potuto, a volte, constatare, di aprire l’uomo a una dimensione nuova. E, se il malato riesce a dare senso alla sua sofferenza, allora essa può diventare un’occasione di crescita e il patire diventerà non solo un soffrire sterile, ma acquisterà valore, divenendo: un “soffrire per”, che trascende, in un certo senso, il dolore stesso.

Così vissuta la malattia, anche la più grave, può diventare qualcosa che appartiene intimamente all’esistenza dell’uomo, un qualcosa che scava l’anima e la apre sull’umanità, diventando, così, non foriera di “morte”, ma fonte di maturazione, di arricchimento, di “vita”.

È essenziale accostarsi al malato non come ad un individuo, ad un essere singolo, ma ad un uomo che vive in una comunità, familiare e sociale; di avvicinarsi ad una persona nella sua totalità, comprendendo anche la sua dimensione sociale e comunitaria, l’ambiente in cui vive, lavora, perché questo aiuterà a stabilire con lui un rapporto non solo professionale.

Cosa significa questo? Viene a stabilirsi un rapporto non medico-paziente ma di relazione e di reciprocità, in cui il soggetto-medico è essenziale al pari del soggetto-paziente in un gioco di unità e distinzione, nel quale il medico si annulla, si fa vuoto per accogliere, comprendere l’altro, il malato.

Si entra, così, in una logica trinitaria di “morte” a sé per dare “vita” all’altro, dove il malato, sentendosi valorizzato, amato e accolto con tutte le sue risorse, le sue ansie, le sue incertezze e le sue attese, si metterà a sua volta in un atteggiamento di fiducia e si aprirà senza riserve. Si potrà così stabilire tra medico e paziente una comunione in un’alleanza terapeutica particolare dove «la terapia poggia su due pilastri: la conoscenza scientifica e l’umanità», come afferma il filosofo Karl Jaspers, ma ha un di più: l’amore.

 

L’apoptosi, chiamata anche “morte programmata”, dà un senso nuovo al “sacrificio di sé”, intendendolo come atto volto alla vita, più che alla morte. Come si può tradurre, secondo lei, questo tipo di sacrificio nella società di oggi? Come può tradursi, nella vita concreta di tutti i giorni, la consapevolezza di questo programma che ciascuno di noi porta nel suo DNA?

 

Magari nella vita quotidiana si prendesse come modello l’apoptosi, questo tipo di “morte” per la “vita”! Quante cose cambierebbero, quanti problemi di meno, quante situazioni si potrebbero risolvere, ma, se ci guardiamo intorno, come siamo lontani…

Avverrebbe una rivoluzione “copernicana” nella società.

Lei mi chiede come è possibile realizzare questo modello di vita nella quotidianità. È difficile dare una risposta, quando siamo immersi in una società così lontana da ciò.

Io credo, ne sono profondamente convinta, però, che ci sarebbe un solo modo: amare, amare con un amore voluto, cosciente, che molto spesso costa, richiede di dimenticare se stessi per essere tutti protesi verso il fratello.

La capacità di amare e di entrare in relazione con i suoi simili sono dimensioni essenziali dell’uomo. Egli non può vivere da solo, da qui la sua esigenza di vivere inserito in una comunità, di vivere “con”, di vivere “per”.

Egli si realizza pienamente come persona – come ho cercato di mostrare nel mio articolo –, in quanto si dona, in quanto ama, posponendo sé agli altri, fino a “morire” a se stesso, per “vivere” l’altro. Il comandamento dell’amore: «Amatevi l’un l’altro come io ho amato voi», che Gesù ha dato all’umanità prima di salire il Calvario, con la reciprocità e con la radicalità che esso richiede, non è qualcosa di estraneo all’uomo, ma è intrinseco, radicato nella sua stessa natura.

Ma l’uomo è libero, libero di amare e non amare, di unirsi al fratello, costruendo un mondo di unità, di pace, di solidarietà o no.

Così dovrebbe essere, ma Dio rispetta la libertà dell’uomo.

 

Oggi si parla tanto di approccio olistico in medicina, che pone al centro dell’attenzione l’uomo tutto intero, e non un suo organo, né tantomeno la malattia che lo colpisce. Può riportarci qualche esempio significativo, nella sua vita di medico, in cui l’evidenza di questa unitarietà dell’uomo, in tutte le sue dimensioni, le è venuta particolarmente in rilievo?

 

Questa domanda mi riporta indietro di tanti anni.

Erano gli anni sessanta, lavoravo nell’ex DDR, l’allora Germania orientale. Ero giovane, agli inizi della professione, quindi con tante cognizioni in testa e poca esperienza, e, per di più, con poca conoscenza della lingua tedesca.

Nel reparto c’era una giovane donna che stava concludendo la sua esistenza terrena. Un caso, si potrebbe dire, dove il medico depone le armi. La malata era sola, distesa nel letto, a combattere con la vita con tutta se stessa. Era molto lucida, cosciente di ciò che stava vivendo. Dai suoi occhi traspariva l’ansia, il timore della morte, che sentiva avvicinarsi. L’avevano messa in infermeria, come in genere si faceva in questi casi, perché non era più un “caso interessante”, ma per me era un essere umano da aiutare, da comprendere, amare. Mi sono avvicinata a questa malata, mi sono seduta accanto al suo letto senza parole, cercando di fare vuoto in me per essere tutta per lei, per fare mia la sua sofferenza, le sue paure, di “morire” con lei. A poco a poco l’ho vista rasserenarsi, non poteva più parlare, ma i suoi occhi parlavano per lei: aveva accettato la morte. Pochi istanti dopo è morta. Può sembrare un paradosso, ma è morta “viva”.

È stato forse, quello, un momento in cui sono stata veramente medico.

 

Per molti anni lei è stata medico di Chiara Lubich, vuole raccontarci qualcosa del vostro rapporto medico-paziente, qualche episodio significativo per il suo modo di vivere la professione?

 

Sì, ho avuto la grazia, la fortuna di essere medico di Chiara Lubich, ma anche di vivere con lei per molti anni, fino all’ultimo suo respiro.

Che dire? Come era il mio rapporto medico-paziente con lei? È difficile dire qualcosa. Era un rapporto di un’unità e distinzione. Mi spiego. Quando era malata, rispettava in me il ruolo di medico, prendeva ogni parola, ogni consiglio così alla lettera – per lei esprimevano una precisa volontà di Dio da vivere bene, fino in fondo –, tanto che dovevo avere molto attenzione ad ogni parola che dicevo, ad ogni consiglio o prescrizione che davo.

Così era con Chiara.

 

Intervista ad Anna Fratta,  autrice dell’articolo L’uomo-persona e la morte come dono. Riflessioni di un medico [«Nuova Umanità» XXXIV (2012/3) 20] e medico di Chiara Lubich.

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