La “lezione” delle bombe

Tutto era vanità. Restava solo Dio che è amore. I primi passi del movimento nascente sotto l’infuriare della guerra.
Guerra

Spulciando, tra i documenti del Museo della memoria di Trento, quelli che riguardano i terribili bombardamenti del 1943-45, si leggono testimonianze molto interessanti. Tra l’altro la città era assolutamente impreparata ad una guerra aerea (la novità di quel tempo), anche perché ritenuta marginale rispetto ad altri siti ben più importanti dal punto di vista strategico. Veri rifugi antiaerei non esistevano, la protezione d’artiglieria era pressoché nulla e limitata ad una postazione di mitragliere.

Di qui l’effetto ancora più devastante sulla popolazione, sottoposta ai terrori di allarmi che si ripetevano anche decine di volte al giorno e costretta a cercar riparo nelle cantine o in altri rifugi di fortuna, causa la strategia stessa dei bombardamenti, che finivano per accomunare in una stessa distruzione obiettivi militari, abitazioni civili, ospedali ed edifici religiosi.

La follia dell’odio costò a Trento 81 incursioni aeree (la prima, il 2 settembre 1943, l’ultima il 3 maggio 1945) con un totale di quasi 400 vittime civili e oltre 1700 edifici distrutti o danneggiati. Ma proprio in questo scenario di desolazione e di morte, come è noto, prese il via l’avventura dell’unità di Chiara Lubich e delle sue prime seguaci: una novità assoluta rispetto a quanto si viveva allora, frutto di un dono dello Spirito.

Era infatti opinione comune tra i cristiani del tempo e argomento della predicazione dei pastori che gli orrori della guerra arrivassero come castigo di Dio per i peccati individuali e collettivi, e come lezione sulla vanità di ogni cosa terrena. Echi di questa convinzione, che peraltro riaffiora in ogni epoca di fronte ai conflitti causati dall’uomo e alle catastrofi naturali, sono frequenti nelle testimonianze scritte del citato Museo trentino.

È singolare invece che Chiara, pur formata nella religiosità tradizionale del suo tempo, non accenni mai, né allora né poi, alla guerra intesa come castigo divino: un fuoco divorante infatti, come sappiamo, era stato acceso in lei dalla ri-rivelazione, subito comunicata alle altre, di Dio Padre che ama tutti e ciascuno di un amore infinito. E ciò già un anno circa prima che i bombardieri alleati iniziassero a scaricare sulla tranquilla città trentina la loro pioggia micidiale.

E quale, in quel frangente, l’effetto sul gruppo iniziale di ragazze? Così lo racconterà Chiara ai giovani del movimento nel 1974: «La scoperta di Dio Amore fu per noi prime focolarine una bomba spirituale di tale portata da farci dimenticare letteralmente tutte quelle che ci cadevano attorno per la guerra». Proprio così. Se ad ogni annuncio di incursione aerea potevano sembrare incuranti del pericolo quando, dirette ai rifugi, si attardavano a dare aiuto a chi camminava con difficoltà oppure, una volta in quei ripari malsicuri, preferivano a differenza degli altri riunirsi verso l’entrata, dove poter leggere indisturbate il Vangelo, prima causa ne era l’anima innamorata, tutta presa da Dio sotto l’influsso di una grazia speciale che non permetteva di vedere altro.

 

Di Chiara non ci è rimasto un diario di guerra: forse neanche avrebbe avuto il tempo di scriverne uno, intenta com’era – con le sue compagne – a prestare ogni soccorso possibile ai concittadini crudelmente provati da quei tragici eventi, a lenire sofferenze e a scoprire “nuova” ogni parola del Vangelo durante le lunghe ore trascorse nei rifugi.

Ci sono giunte invece, di quel periodo, due lettere infuocate ad Elena Molignoni, in cui l’esperienza incalzante di Dio Amore fa passare in secondo piano, pur senza ignorarlo, il dramma della guerra. Nella prima, del 16 aprile 1944, Chiara scrive alla sua giovane amica di Castello in Val di Sole «approfittando d’un allarme, in un praticello accanto al rifugio, mentre attendo di entrare nel “buco” alla venuta degli apparecchi. (…) se in poche parole posso dire il perché della mia vita, queste sarebbero: amo Dio e lo vorrei amare come mai fu amato. Lavoro per farlo amare».

E il 7 giugno dello stesso anno: «Ho avuto anch’io la grazia di soffrire con tanti; ho avuto anch’io la mia casa sinistrata e inabitabile; ho dormito anch’io sotto le stelle, ho fatto chilometri a piedi; ho sofferto e pianto e per tutto questo: lode al buon Dio che nel suo grande amore ha provato il mio amore e mai mai, Elena cara, ho così lodata la vita come ora che ho visto che tutto passa e ciò che rimane è solo quel tanto amore di Dio che raccogliamo nel nostro cuore. (…) Quaggiù ci sono allarmi sempre e sempre romba il motore! Sempre siamo lì ad aspettare la chiamata di Dio. Solo un atto d’ubbidienza è quello che scaturisce dal mio cuore: ubbidienza alla divina volontà!».

 

Fra le due lettere si situano episodi che hanno segnato la storia del nascente movimento. Il 13 maggio, un terribile bombardamento danneggia gravemente la casa di Chiara, costringendo i genitori e le sorelle a sfollare verso la montagna, mentre lei rimane a Trento in obbedienza al suo padre spirituale che le ha imposto di non abbandonare le compagne. Nello strazio per la separazione dai suoi, solo il ricordo di un verso di Virgilio – Omnia vincit amor, tutto vince l’amore –, con tutt’altro significato però rispetto all’originale, le dà la forza di aderire a quella volontà di Dio su di lei.

Più tardi, tra le rovine dell’ospedale dove è stato assegnato come medico praticante, Chiara rintraccia incolume il fratello Gino che, dopo aver abbracciato il comunismo, è coinvolto fino al collo nella lotta di liberazione. Ambedue si aggirano sbigottiti e inorriditi fra le vittime del distrutto reparto 3: giovani donne affette da malattie veneree i cui cadaveri dilaniati recano ancora tracce di trucco. Di fronte a questo spettacolo, Chiara coglie un commento dalla bocca di Gino: Vanitas vanitatum, tutto è vanità delle vanità. Anche quest’altra frase in latino, tratta stavolta dal Libro di Qoelet, non la dimenticherà più.

Sì, dall’esperienza della guerra, più che il monito di un Dio che castiga, Chiara accolse la “predica” sulla vanità di tutto. La transitorietà – sotto le bombe – di ogni ideale umano, il venir meno di ogni certezza, la convinsero di qualcos’altro di eterno e di inscalfibile che le si edificava dentro. Il niente chiamava il tutto che è Dio, quel Dio al quale si era consacrata il 7 dicembre 1943 e che sempre più, sotto le vesti dell’Abbandonato, le si svelava come amore.

Oreste Paliotti

 

 

La Parola generava la comunità

 

«C’era fra tutti (coloro che avevano aderito all’Ideale dell’unità) il senso preciso d’esser membra d’un solo corpo e d’aver un solo debito coi fratelli: il vicendevole amore. E la comunità cresceva. In quasi tutti i rifugi praticati nelle collinette circostanti la città – nelle lunghe ore di allarme – stavano anime col Vangelo in mano.

«Si leggeva e si faceva. Si metteva in comune quanto si comprendeva nella pratica della Parola di Dio, cosicché, dopo pochi mesi, le anime riunite dal comune Ideale, erano circa cinquecento».

 

(Da: Un po’ di storia del “Movimento dell’unità”, opuscolo pubblicato con Imprimatur del 25.3.1950 dell’arcivescovo di Trento Carlo De Ferrari)

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