Atkinson e le diseguaglianze inaccettabili

Il primo gennaio del 2017 è scomparso un grande economista che ha saputo resistere all’ideologia che giustifica la diseguaglianza come motore della crescita. Le proposte operative che ci ha lasciato
foto Ap

È di questi giorni la notizia, riportata dal Rapporto Oxfam 2017, secondo cui 8 super miliardari detengono da soli la stessa ricchezza in possesso della metà più povera della popolazione mondiale, 3 miliardi e 600 mila esseri umani.

Del resto il 70% della popolazione mondiale vive in nazioni che hanno visto negli ultimi trent’anni aumentare il loro livello di disuguaglianza.

Stiamo sperimentando ormai da tempo la “maledizione di San Matteo”, secondo cui a chi ha verrà dato e a chi non ha verrà tolto anche quello che ha. Anche solo a livello intuitivo questi dati fanno comprendere quale livello abbia raggiunto la disuguaglianza sul nostro pianeta e quali le conseguenze di un sistema politico ed economico che per decenni ha, prima teorizzato che la diseguaglianza si sarebbe ridotta con il crescere della ricchezza e che poi, davanti all’evidenza incontrovertibile, si è rassegnato a considerarla come il prezzo da pagare per la crescita economica.

Abbiamo costruito un sistema nel quale la finanziarizzazione, la rendita, la produzioni di denaro a mezzo denaro, hanno spiazzato l’economia reale, il ruolo del lavoro, gran parte del potere di controllo degli stati nazione quali meccanismi di produzione della ricchezza, del valore vero. La conseguenza è un’insopportabile e sempre crescente differenza tra chi ha sempre di più e chi invece non ha.

Non sono pochi gli addetti ai lavori che ritengono la diseguaglianza come l’altra faccia della medaglia dello sviluppo, c’è anche chi la considera il vero motore della crescita economica.

E’ emblematico, in questo senso, il caso di Greg Mankiw, professore ad Harvard e autore del più diffuso manuale di introduzione all’economia, oggi adottato in centinaia di corsi intorno al globo, che nel suo saggio intitolato significativamente “In difesa dell’1 percento”, giustifica l’inazione davanti ai problemi della disuguaglianza facendo riferimento, tra le altre cose, all’ereditarietà del quoziente intellettivo: siccome genitori e figli condividono il patrimonio genetico, questo fatto porta ad una persistenza intergenerazionale  del reddito. Anche in un mondo di pari opportunità, genitori intelligenti avranno con maggiore probabilità figli intelligenti e questo si rifletterà in una ricchezza maggiore.

Fortunatamente non tutti gli economisti hanno ceduto in questo modo all’idolatria del mercato e della ricchezza materiale come uniche misure del valore delle persone. Anzi molti hanno lottato e ancora si adoperano, con gli strumenti della scienza e dell’impegno civile, per ridurre lo scandalo inaccettabile della disuguaglianza, per creare condizioni materiali che facilitino lo sviluppo delle capacità di ciascuno indipendentemente dal reddito della sua famiglia di nascita, per ridurre quella che Papa Francesco chiama la “radice di tutti i mali sociali”.

Una figura di assoluto rilievo, in questo senso è stata quella di, Anthony Atkinson, economista inglese, scomparso di recente, che per una vita intera ha lavorato sul tema della disuguaglianza, per sviluppare strumenti migliori per la sua misurazione, per la comprensione delle sue cause e per un suo sempre più efficace contrasto.

Sir Anthony Atkinson, è stato professore a Londra, a Oxford e a Cambridge; un grande accademico con una grande visione, come ricorda il suo amico e collega, il premio Nobel Christopher Pissarides: comprendere come possano esistere povertà e disuguaglianza in un mondo ricco come il nostro e soprattutto cosa occorre fare per contrastarle efficacemente.

Contrariamente a molti suoi colleghi, Atkinson non si è mai rassegnato alla visione tradizionale secondo cui progresso tecnico e globalizzazione debbano portare in modo ineluttabile all’aumento della disuguaglianza. Sia pure progressivamente ridotti, gli Stati e i loro governi continuano a mantenere spazi d’intervento potenzialmente efficaci. Ciò che manca è semmai l’indipendenza, l’autorevolezza e la volontà della politica a contrastare tali fenomeni.

Colmare la distanza tra intuizioni scientifiche e azioni concrete è stata un’altra delle sue grandi aspirazioni.

Il suo ultimo libro, Disuguaglianza. Che cosa si può fare?, rappresenta una sorta di testamento intellettuale ed è fortemente incentrato su proposte operative; ne presenta e argomenta quindici differenti, che vanno dalle azioni pubbliche volte a favorire forme di progresso tecnico amiche del lavoro e non sostitute dell’azione umana, a politiche capaci di garantire un livello minimo di occupazione; si propone una dotazione monetaria minima, una sorta di eredità pubblica, per ogni giovane che diventa maggiorenne, ma anche un incremento della progressività delle aliquote fiscali fino ad un massimo del 65 percento per i redditi più alti; viene suggerita anche l’introduzione di un reddito di partecipazione incondizionato, prima a livello nazionale da estendersi poi a livello europeo e anche la fissazione di un livello minimo dell’1 percento del PIL da destinare agli aiuti dei Paesi in via di sviluppo, da parte dei paesi ricchi.

Certamente proposte non facili da implementare, per molti neanche da concepire, eppure, con il rigore del ragionamento e una enorme quantità di dati dalla sua parte, Atkinson termina il libro con un paragrafo intitolato “Motivi d’ottimismo”.

Nonostante le nuove sfide dell’invecchiamento della popolazione, delle crescenti disuguaglianze, del cambiamento climatico, e degli squilibri geopolitici, “le soluzioni a questi problemi sono nelle nostre mani – scrive, e conclude affermando che – se saremo disposti a usare la nostra maggiore ricchezza per affrontare tali sfide e ad accettare che le risorse vadano condivise in un modo meno diseguale, allora ci sono buoni motivi per essere ottimisti”. E noi lo siamo con lui.

 

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