La folle corsa agli armamenti e il caso dei caccia F35

Intervista a Maurizio Simoncelli, dell’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo, sugli ultimi dati mondiali relativi all’export di armi. La questione della sospensione dell'acquisto dei caccia bombardieri
Expo armi in India

Come sottolineato nel taccuino internazionale di cittanuova.it, la Cina prosegue nel riarmo con un balzo del 12,2 per cento delle spese militari. Gli equilibri geopolitici sono sempre instabili, come dimostra il caso ucraino che coinvolge la Russia, interessata a trovare nuovi mercati ai propri armamenti. La recente vendita di armamenti all’Egitto per tre miliardi di dollari ne è un esempio.

E l’Italia? Le sue industrie restano all’avanguardia nel settore, tanto da mantenere il posto in classifica tra i primi dieci esportatori di sistemi d’arma al mondo. Proprio qualche anno addietro, il Corriere della Sera riferiva della nuova fortuna della Tiburtina Valley (concentramento di industrie legate a Finmeccanica nella zona periferica di Roma) originata dalle commesse richieste dal cliente russo proiettato sui mercati orientali. Ma il grande affare resta quello dei caccia bombardieri F35 nel quadro di una strategia statunitense di lungo termine, sostenuta politicamente in maniera  trasversale fino al recente avvio dell’indagine parlamentare conoscitiva sui sistemi d’arma che dovrebbe concludere i suoi lavori ad aprile 2014 con una proposta di riduzione dell’impegno di acquisto.

Per inquadrare la situazione a livello generale con i nuovi dati provenienti dall’Istituto Sipri di Stoccolma, abbiamo ascoltato il professor Maurizio Simoncelli dell’autorevole centro studi Archivio Disarmo.

Seguendo ciò che avviene in Cina e Russia possiamo dire di trovarci in una nuova fase di riarmo?
«In realtà, a livello mondiale, le spese militari hanno cominciato a crescere ben prima dell'11 settembre 2001, cioè prima dell'attacco alle Twin Towers di New York e della conseguente guerra al terrorismo. Sono passate da 1120 miliardi di dollari del 2000 ai 1733 del 2012, aumentando circa del 50 per cento. In tempi più recenti, la Cina è passata dai 63 miliardi di dollari del 2004 ai 157 del 2012, mentre la Russia è passata da 43 a 91 nello stesso arco di tempo. Cifre considerevoli, ma certamente poca roba se consideriamo che – nello stesso periodo – gli USA hanno incrementato il loro budget per la difesa da 507 a 669 miliardi di dollari (il quadruplo della Cina e il settuplo della Russia). Inoltre, anche se tra il 2008 e il 2012 20 Paesi su 37 in Europa occidentale e centrale hanno ridotto la spesa militare di oltre il 10 per cento in termini reali, l'Unione Europea ha speso ben 285 miliardi di dollari per la difesa nel solo 2012 (il doppio della Cina e il triplo della Russia), per sostenere forze armate ammontanti a ben 1 milione e 500 mila uomini. Non sono cifre insignificanti, anzi direi preoccupanti perché – al di là delle parole – mostrano un impegno finanziario rilevante attivato nel settore militare in un periodo di grave crisi economica, con paralleli e pesanti tagli allo stato sociale».

Cosa comporta questa corsa agli armamenti e come si pone la produzione italiana nella competizione globale?
«Finché permarrà una logica della contrapposizione, la corsa agli armamenti continuerà con tutti i pericoli connessi. La debolezza istituzionale delle Nazioni Unite, peraltro unico organismo universale di cui siamo riusciti a dotarci, risiede fortemente nei limiti del suo Consiglio di sicurezza, con i cinque Paesi aventi diritto di veto. Non sono casuali le resistenze da parte di quei Paesi a modificarne l'assetto, in quanto potrebbero perdere posizioni di privilegio ormai inaccettabili in un mondo multipolare con equilibri internazionali in rapida trasformazione. Tutto ciò contribuisce alla corsa agli armamenti: nel 2013 l'Asia nel complesso è il primo acquirente mondiale di maggiori sistemi d'arma (carri armati, aerei, navi ecc.), dove l'India fa la parte del leone con merci importate per un valore di 18 miliardi di dollari. Gli Usa restano leader nell'export (39 miliardi di export), seguiti da Russia (36), Germania (8,8), Cina (7,3), Francia (7,2), Gran Bretagna (5,5), Spagna (3,9), Ucraina (3,5), Italia (3,4) e Israele (3,1). Come si vede, anche l'Italia si posiziona tra i primi dieci posti a livello mondiale, fatto non trascurabile. Anzi si può notare che, mentre siamo spesso collocati in posizioni arretrate nel campo della cultura, della sanità, della trasparenza amministrativa ecc., qui siamo, per così dire, in pole position».

È cambiato qualcosa con la nuova direzione di Finmeccanica? Esiste un diverso rapporto con il partner tradizionale statunitense?
«Finmeccanica nel corso degli anni ha dismesso numerose produzioni civili e sembra sempre più orientata a concentrarsi quasi esclusivamente sulla produzione militare, che è, invece, un settore estremamente esposto, in quanto soggetto prevalentemente ad operare in un mercato ristretto in cui il proprio cliente è lo Stato italiano. Sembra voler ricalcare la passata esperienza negativa dell'Efim. Le vicende giudiziarie in cui è stata coinvolta in Italia e all'estero (basta pensare a quella indiana, fonte di ulteriore umiliazione internazionale) evidenziano la necessità di ripensare l'intera politica industriale».

Come si legge in tale contesto il caso dei caccia F35?
«L’intera vicenda è significativa. Il progetto di questo costoso aereo, al di là dell'impegno finanziario, costringe la nostra aeronautica a dipendere totalmente da un produttore statunitense (la Lockheed Martin) rinunciando ad una nostra coproduzione di qualità a livello europeo (l'Eurofighter). Tutto questo per avere un aereo invisibile ai radar e quindi poter avere la possibilità di un first strike (di un attacco a sorpresa) contro un possibile avversario. A parte il fatto che il generale Fulvio Gagliardi, in un recente convegno sulle Forze armate nello scenario europeo tenutosi a Roma, ha affermato, nel criticare l'F35, che la tecnologia stealth (che permette l'invisibilità degli aerei ai radar ndr) sarà superata nel giro di pochi anni, il volersi dotare di tali sistemi d'arma, in grado di portare anche bombe nucleari, non può che allarmare i nostri vicini (leggi Russia e Cina), con conseguenti irrigidimenti e timori reciproci. La dislocazione delle basi antimissili Usa vicino ai confini russi in funzione antiraniana (sic!) e l'ammodernamento delle bombe nucleari tattiche B61 hanno contribuito al deterioramento dei rapporti internazionali. La vicenda ucraina, tra l'altro, ne è un'ulteriore conferma».

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