La fede di Antonio Canova

Due secoli dopo la sua morte, parte l’anno dedicato al grande scultore, l’ultima star internazionale della nostra arte, fra papi e imperatori. Una indagine sul suo sentimento religioso.
Canova, panorama di Possagno, dove è nato, con sullo sfondo il Tempio Canoviano. Foto Wikipedia

Lo scultore veneto Antonio Canova (1757 – 1822) è una figura dominante a livello europeo dell’arte tra fine Sette e primo Ottocento. È un artista umile, viene da un ambiente modesto se non povero nel paese di Possagno nel Trevigiano, fa carriera grazie a protettori che ne individuano la genialità precoce e balza nel giro di pochi anni alla ribalta internazionale.

È un uomo modesto, credente, che si inserisce nel filone del cosiddetto Neoclassicismo, ossia in quella corrente intellettuale e spirituale che rivisita la classicità, anche sull’onda delle scoperte archeologiche come Pompei.

Ma Canova non è un freddo imitatore dell’antico né un nostalgico del passato. Egli opera una resurrezione della bellezza ideale unendola ad una sensibilità naturalistica, al gusto del colore – è anche pittore – e alla luce come fonte principale della vita che traspare in ogni sua opera sia di modeste come di grandi dimensioni. Canova possiede, accanto ad una abilità tecnica straordinaria e ad una dedizione assoluta all’arte, un sentimento religioso profondo che egli riversa in particolare nei monumenti funebri, un soggetto tipico di questa età di transizione fra eventi drammatici come la rivoluzione francese e l’impero napoleonico.

Sono ben tre i monumenti dedicati ai pontefici. In essi Canova oltrepassa il gusto spettacolare del Bernini per evidenziare l’umanità del defunto ritratto, accompagnato da figure simboliche di chiara ascendenza classica ma impregnate da uno spirito nuovo, quello di una eleganza formale insieme ad una sobria partecipazione emotiva al tema del compianto. Nessun eccesso nelle superfici lucide, luminose, nel clima della speranza.

Nel 1783 inizia il monumento funebre di papa Clemente XIV (Roma, Santi Apostoli), il pontefice che ha sciolto i gesuiti nel 1774.  Il papa è ritratto con un imperioso gesto benedicente, seduto in trono sopra il sarcofago dentro una architettura possente e leggera, tra due grandi figure allegoriche. Entrando nella vasta chiesa, occorre scoprirlo nella navata sinistra, sopra la porta che dà alla sacrestia.

Più ispirato appare il monumento a Clemente XIII nella basilica vaticana, iniziato nel 1784. L’immagine del papa veneto inginocchiato in preghiera è commovente. Rivestito di pesanti paramenti, descritti con minuzia, il vecchio pontefice appare immerso nella meditazione, il volto anziano, cadente, l’espressione assorta. Canova ha raffigurato con precisione il carattere devoto dell’uomo e l’intensità del suo colloquio con Dio, tipica di un papa che si trovava a vivere situazioni burrascose per la chiesa.

Al di sotto della possente figura del pontefice si innalza la grande statua che simboleggia la Religione come luce, forse in troppo maestosa, e poi,al lato opposto, il genio ignudo seduto accanto al leone accovacciato in travertino.

È il Genio della Morte a cui corrisponde la certezza della Fede. Il giovane con la torcia capovolta raffigura la morte ma è una innovazione iconografica rispetto agli scheletri dei monumenti del Bernini. La bellezza levigata dell’adolescente trasmette un senso di purezza che Canova dimostrerà pure nelle numerose opere di soggetto mitologico. Qui la sua perfezione allude alla luce della resurrezione, come un compianto sereno e speranzoso.

Forse il momento più alto nella raffigurazione dei sepolcri papali è costituito dalla statua di Pio VI in preghiera (Roma, Grotte Vaticane, 1821). Canova coglie perfettamente l’intensa espressione del vecchio pontefice esiliato da Napoleone e morto in prigionia. Il suo volto provato dai dolori si slancia nell’orazione, emerge dall’immenso piviale come una lampada di fervore e di pathos, gravato dalle sofferenze ma pieno di fiducia. La possente massa marmorea viene alleggerita dalla densità spirituale concentrata nel volto. Canova ha la capacità di rendere leggera e leggibile l’anima anche sotto una struttura grandiosa.

È quanto si osserva nel marmo della Maddalena penitente (Genova, Palazzo Bianco, 1796): una figura inginocchiata ricca di pathos anche se controllato, diversa da quella più tarda del 1819 (scomparsa, di essa rimane il gesso) in cui la santa era abbandonata a terra sfinita dalle penitenze, rivestita di una luminosità tersa e diffusa.

In un’altra opera, la tela dipinta per il duomo del paese natale (1799 -1812), una architettura fra il Partenone e il Pantheon sotto il massiccio del Grappa, che da lontano sembra una apparizione fra le rocce, Canova affronta in forma trinitaria il consueto tema del Compianto funebre.

L’opera possiede un carattere visionario, come la contemporanea pittura di Blacke, che si accompagna alla sensibilità classica, filtrata da una tradizione iconografica cristiana con un sentimento calmo e pieno di dignità. Il coro dei dolenti intorno al cadavere di Cristo, pallido, possiede lo strazio dignitoso di una tragedia antica in cui Maria sta con le braccia aperte in un atteggiamento implorante verso il cielo.

In alto, il Padre irrompe dall’eternità come uno Zeus turbinoso tra vapori luminosi: solo il volto con due occhi fiammeggianti è descritto, il resto del corpo si perde in trasparenze sfocate. Dio è puro spirito.

Dal turbine di questo Dio-Architetto dell’universo escono piccoli angeli ad accompagnare la scena. I colori spenti, le luci smorzate nel cielo che si apre a raggiera di fronte alla epifania del Dio dalle braccia spalancate sul cosmo, fluttuante nell’aria indistinta e nebulosa con classica compostezza, esprimono pur nel dramma la consolazione che egli viene a portare sulla terra insieme alla divina colomba dello Spirito.

Egli è secondo una consolidata tradizione iconografica il Dio onnipotente e misericordioso che si chinerà sul Figlio morto per l’umanità. E’ l’amore per il momento del trapasso che prelude alla futura gloria come varco verso l’immortalità.

Tema che pervade anche l’architettura luminosa della volta e della struttura circolare dell’edificio. La classicità diventa un segno della resurrezione umana verso una bellezza infinita, verso una vita che non finisce. È la vita di corpi ritratti dallo scultore, sempre “risorti”, perfetti e teneri, dotati di una grazia che  non è solo raffinatezza formale, ma slancio vitale, fede nel destino luminoso dell’uomo, nella sua immortalità.

 

 

Bibliografia:

 

  1. Verdon, L’arte sacra in Italia, Mondadori, Milano 2001.
  2. Zuffi (cur.), L’età delle rivoluzioni, Electa, Milano 2006.

AA.VV., Canova l’ideale classico tra scultura e pittura, Silvana Editoriale, Milano 2009.

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