La bellezza riscoperta

Si dice che nulla possa sostituire l’emozione della scoperta in uno scavo archeologico. Eppure esiste un altro tipo di scavo altrettanto affascinante, ed è quello condotto nei musei e nei relativi depositi per dare una attribuzione a opere inedite o note magari da secoli. Certo meno appariscente rispetto all’archeologia che si fa sul campo, non di rado porta anch’esso a clamorose scoperte. Si tratta di distinguere nell’immensa mole di reperti, spesso non valorizzati, quelli che si offrono come effettivi argomenti di storia dell’arte, di decifrare i rapporti che li collegano rintracciando la vicenda delle forme. Chi si dedica a questo tipo di ricerca dev’essere dotato di passione, tenacia, intuito, e di una cultura incredibile che gli consenta di muoversi a proprio agio tra i massimi geni dell’antichità. È il caso del professor Paolo Moreno, affermatosi in ambito internazionale e anche al di fuori della cerchia degli specialisti grazie alle sue scoperte. A lui – come recita la motivazione del premio internazionale Tarquinia-Cardarelli 2004 (sezione archeologia) – si deve il nuovo corso della storia dell’arte antica con un’ininterrotta saggistica su temi fondamentali come lo snodo tra stile severo e classicità, i dipinti originali trovati in Macedonia, Lisippo il massimo bronzista ellenico, la sistemazione del periodo ellenistico e il passaggio all’arte imperiale. Moreno mi accoglie cordiale e semplice come i veri uomini di cultura nel suo studio ingombro di libri a due passi da piazza Farnese. Professor Moreno, se dovessi rappresentare con una immagine il suo lavoro, sceglierei quella dell’occhio. Un occhio capace di vedere ciò che forse era sempre sfuggito ad altri. Non per niente la rubrica con cui lei collabora al mensile Archeo s’intitola Saper vedere… Effettivamente io mi occupo di identificazione e di attribuzione di soggetti antichi. E ciò seguendo una duplice via: quella tradizionale dell’archeologia filo- logica (risalire dalle copie romane agli archetipi perduti) e l’altra, innovativa perché segue il procedimento inverso, intrapresa dai colleghi greci nella seconda metà del Novecento (utilizzare le repliche per verificare gli originali ricomparsi nella completezza dei particolari e degli attributi). Si deve infatti a loro, agli archeologi greci, l’aver fatto rivivere inaspettati capolavori, finanche ricomponendo frammenti misconosciuti nei depositi dei loro musei. Si tratta di un campo di ricerca straordinario: specialmente dal mare affiorano sempre più spesso degli originali greci corrispondenti a copie romane già in nostro possesso: una conferma, dunque, del buon vecchio metodo filologico o di ricostruzione induttiva, da molti oggi rinnegato. Dunque lei è stato un po’ un pioniere in Italia sia per questo nuovo tipo di ricerca che per aver associato i vantaggi delle due vie… Può dirlo. Nessuno ancora aveva tentato sistematicamente di riscrivere una storia dell’arte greca a partire dagli originali recuperati attraverso scavi, rinvenimenti subacquei, ricognizioni di capolavori misconosciuti. Come metodo mi sento vicino a Johann Joachim Winckelmann (1717-1798): in una Roma dove gli studiosi del tempo credevano di sapere tutto e avevano classificato le statue in maniera convenzionale, fu lui, approfondendo l’opera venuta dal passato sulla scorta degli scrittori antichi, a stabilire una sequenza di soggetti identificati costituenti nuclei di verità su cui poi costruire. Winckelmann disponeva solo delle opere esistenti a Roma nel XVIII secolo, noi possiamo spaziare sull’archeologia mediterranea. È impossibile ricordare qui tutte le opere, anche celebri, alle quali lei è riuscito ad attribuire una identità ed una paternità… Mi dica: le sue ipotesi hanno trovato sempre conferma nell’ambiente accademico? Sì, anche se talvolta dopo vivaci discussioni. Un esempio di ostilità risoltasi di recente è l’identificazione della cosiddetta Venere dell’Esquilino come Cleopatra, da me lanciata nel 1994 con argomenti rigorosi. Proprio in questi mesi la statua viene esposta come centro della Mostra su Cleopatra ad Amburgo, una conferma clamorosa. Analogo è il caso del Satiro in estasi di Mazara, rinvenuto in mare in due pezzi nel 1977 e 1998. Per anni ho potuto seguire a Roma il restauro di questo bronzo assolutamente eccezionale, vedendo così scoprire pian piano la sua pelle originaria. Pensavo inizialmente ad un prodotto ellenistico, ma l’analisi stilistica mi ha portato con decisione all’attribuzione a Prassitele. Il questi giorni il Satiro è stato trasferito al Louvre per la grande mostra su questo scultore. Quanto ai Bronzi di Riace, è stata in generale accolta la mia ipotesi che si tratti di due eroi dei Sette della spedizione contro Tebe: Tìdeo e Anfiarao, Agelada di Argo autore del primo e Alcamene del secondo. In occasione delle Olimpiadi del 2004, il governo greco aveva comprato due copie stupende dei Bronzi realizzate dallo scultore reatino Dino Morsari, ma le statue erano rimaste in deposito al Pireo. Nell’agosto del 2006, dovendo fare una conferenza a Tebe proprio sui Bronzi di Riace, che dipendono dal dramma di Eschilo, ricordai quelle copie giacenti in magazzino al collega che mi aveva invitato al convegno. Lui riuscì a ottenerle ed io ebbi l’onore di inaugurarle sulla Cadmea, l’acropoli di Tebe, proprio in quanto raffigurazioni dei due esponenti della schiera dei Sette. Altri studi recenti, motivo per me di soddisfazione, mi hanno condotto a identificare una Afrodite ellenistica nella Vittoria di Brescia, a restituire a Fidia e a Prassitele il Vecchio la paternità del gruppo colossale in bronzo di cui sono copia i Dioscuri del Quirinale, come pure a precisare l’armamento del Doriforo di Policleto. Lei però ha fatto anche archeologia sul campo… Sì, in Italia ho scavato a Paestum e a Velia, e in Grecia a Festòs (Creta). È stata una esperienza bella, ma breve. A Paestum in particolare, dove la Tomba del Tuffatore (470 a.C. circa) ci ha restituito il documento più vicino alla grande pittura greca del tempo di Polignoto, ho fatto una osservazione che lei ora mi dà l’occasione di ricordare: dei due alberi di olivo riprodotti all’interno della copertura, quello di destra, accanto al trampolino da cui si tuffa il defunto, è potato, l’altro all’estremo opposto è allo stato naturale. A indicare il viaggio dell’anima dal mondo degli umani all’aldilà. Un messaggio straordinario, che richiama credenze pitagoriche. Passando invece alla sua attività didattica, cosa le sta più a cuore? Un impegno particolare alla Facoltà di Lettere di Roma Tre sono le visite di sabato con gli studenti a collezioni pubbliche, mostre e laboratori di restauro: un’esperienza ormai trentennale, dalla quale è nato anche un libro, Sabato in museo (Electa, 1988). Questa attività coinvolge anche laureandi ed esperti che partecipano al Forum di Storia dell’arte antica presso la stessa Università, dove sono gli stessi allievi a riferire su determinati soggetti. Il mondo della cultura, se a volte può apparire afflitto da gelosie e chiusure, registra anche esempi di collaborazione tra studiosi di nazioni talvolta contendenti per il salvataggio o il restauro di beni archeologici in Paesi in guerra… Lei ha centrato un argomento di grande importanza, sul quale pochi riflettono. È vero, l’antico può unire e il salvataggio appunto di monumenti compromessi ha catalizzato in diversi casi forze che si pensavano estranee. A suo avviso, quale contributo possono dare le discipline di cui si occupa all’oggi in cui viviamo? Quello di educare attraverso la conoscenza del bello. Ad un certo momento della loro storia i greci hanno realizzato nell’arte l’idea platonica di un mondo superiore, che anche oggi l’uomo aspetta. Si tratta di modelli assoluti nel tempo, universali. In special modo i giovani sono sensibili: lo vedo negli studenti del mio corso, tutti molto motivati. È questo messaggio spirituale della bellezza – tema sul quale Giovanni Paolo II ha indirizzato agli artisti alcune importanti lettere – che intendo comunicare. Cerco di farlo con un linguaggio non da iniziati, ma piacevole e accessibile, tanto nei saggi quanto negli articoli destinati a riviste divulgative. AOLO MORENO è nato a Udine nel 1934. Allievo a Roma di Ranuccio Bianchi Bandinelli , e di Doro Levi ad Atene, dal 1992 è titolare della cattedra di Archeologia e Storia dell’arte greca e romana nell’Università di Roma Tre. Imponente il numero delle sue pubblicazioni (più di seicento titoli!), tra cui ricordiamo gli importanti saggi Lisippo (1974), Vita e arte di Lisippo (1987) e Lisippo. L’arte e la fortuna, catalogo della mostra (1995), che raccolgono il risultato di vent’anni di studi sul grande scultore; nonché Scultura ellenistica (1994), I bronzi di Riace. Il maestro di Olimpia e i Sette a Tebe(1998), Apelle. La battaglia di Alessandro (2000), Il genio differente(2002), La bellezza classica(2003) e Alessandro Magno. Immagini come storia( 2004).

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