Inevitabile via della seta

Il recente accordo firmato tra Cina e Italia durante la visita di Xi Jinping a Roma apre la Nuova via della seta proprio partendo dall’Italia. Una via che fa parte di un progetto antico. Opportunità e incognite

Cosa diceva lo slogan sessantottino durante la guerra del Vietnam? «Fate l’amore, non la guerra». Oggi potremmo cambiarlo in: «Fate affari, non guerre commerciali». Scherzi a parte, quanto è accaduto durante la prima tappa del viaggio europeo di Xi Jinping è una logica conseguenza di quanto sta accadendo in molte parti del mondo da circa 20 anni a questa parte: l’approccio cinese è vincente con le economie di mezzo mondo. Siamo di fronte a un cambio di prospettiva epocale per l’approccio vincente del Dragone che mira ad investire, sviluppare, commercializzare, rinnovare infrastrutture e quant’altro ci possa essere, purché abbia come obiettivo un reciproco vantaggio economico. Questo è il punto: la vecchia prospettiva in fondo coloniale dei “vincitori e perdenti”, è stata soppiantata da una nuova mentalità, win-win, vinciamo entrambi. Ormai tutti lo sanno.

Alla vecchia mentalità stile “guerra dell’oppio” – in cui i colonizzatori inglesi obbligarono i cinesi a tollerare la forzata vendita della droga per soggiogare la popolazione a favore dei conquistatori europei –, dopo 200 anni circa la Cina risponde con una spinta al commercio libero di portata mondiale, che non compra soltanto materie prime ma che investe, costruisce e sviluppa. E qui è il punto di forza del nuovo impero cinese: investimenti a tassi zero (ma non ci si illuda, non è filantropia, perché soprattutto i Paesi più poveri alla fine si ritrovano comunque indebitati e nelle mani dello yuan). Questa Terza guerra mondiale che i cinesi stanno vincendo senza sparare un solo colpo di cannone o senza sganciare una sola bomba si basa sul fatto che i tassi bassi o nulli sono possibili perché chi utilizzerà quelle infrastrutture saranno proprio le aziende cinesi, aiutate da aziende locali. Le imprese del Dragone hanno bisogno di porti dove le loro aziende possano investire, creare strutture (e dare lavoro) e far girare la impressionante mole di produzione made in China.

Sorge allora una domanda: ma l’Occidente può contrastare questa politica? Potrebbero le aziende ed i governi occidentali fare altrettanto? È un dato di fatto che la politica commerciale occidentale sia in ritardo di circa 20 anni. Ormai i nostri porti, le nostre autostrade, i nostri ponti, le nostre vie urbane, insomma tutte le infrastrutture, sono in gran parte invecchiate e spesso cadono a pezzi, mentre in Cina i progressi sono straordinariamente evidenti.

La via per far fronte all’offensiva cinese è di altro genere. Cosa possiamo in effetti offrire noi all’Asia, alla Cina, in cambio della loro liquidità e del loro know how? L’ho chiesto in questi giorni a un cinese, che da 30 anni lavora per una ditta italiana con impianti anche in Cina. La sua riposta è stata semplice: «Noi cinesi ammiriamo la bellezza, la genialità, la fantasia, i colori dell’Italia: il cibo, la moda, l’innovazione e la creatività sono caratteristiche uniche, sono prerogativa dell’Italia».

Dopo 30 anni che vivo in Asia, posso forse spendere una parola a favore della Nuova via della seta: non si deve temere un Paese che in tutto il mondo possiede soltanto una base militare, a Gibuti, parecchio lontana dalle nostre coste. A differenza di chi, e sappiamo chi, di basi militari ne ha centinaia e centinaia. I cinesi non puntano a invadere nessun Paese con le armi: ma con i telefonini sì, con i tessuti low cost, con mille prodotti più economici dei nostri. E allora la risposta deve basarsi sulle nostre specificità: con la Nuova via della seta anche i commerci Europa-Cina in effetti aumenteranno: ricordiamo ad esempio che il Paese al mondo dove corrono più Ferrari è proprio la Cina, e gli ordinativi non accennano a diminuire.

Detto questa parola a favore dell’accordo Cina-Italia, non possiamo peccare d’ingenuità: è evidente come la Cina in Europa non venga solo e tanto per nobili motivi culturali e di amicizia tra i popoli, ma soprattutto per fare affari. Ogni anno circa mille miliardi di dollari sono a disposizione del governo di Pechino per investire all’estero. E i cinesi lo fanno con la loro mentalità capitalistica assai spregiudicata, iper-liberale anche se in Cina non ci sono le libertà dell’Occidente, approfittando della debolezza strutturale dell’economia europea, e italiana in particolare. Assicurandosi così nuovi possibili sbocchi per smerciare i loro prodotti ancora competitivi rispetto ai nostri, perché non debbono sottostare alle rigide norme sindacali esistenti in Occidente. Per questo, val la pena di ricordare le parole di Mattarella che, con molto garbo ma con fermezza, ha chiesto di incrementare i rapporti commerciali tra Cina e Italia, ma arrivando anche ad affrontare la questione dei diritti umani.

Infine, non può mancare una parola (triste, o quanto triste!) per sottolineare come, ancora una volta, l’Europa non sia riuscita ad agire sostenendo un discorso comune in politica estera. Come al solito, Francia, Germania, Italia e gli altri Paesi dell’Unione avanzano in ordine sparso, incrementando così la presenza di quelle tossine politiche che rischiano di far annegare la stessa Unione in una cronica mancanza di visione comune che, tra l’altro, ha come conseguenza una debolezza grave della sua proposta economica.

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