Il problema della conoscenza

II problema della conoscenza, che vorrei qui affrontare, presenta due aspetti intimamente collegati fra loro, ma che possono essere considerati anche separatamente. Il primo aspetto concerne il meccanismo del processo conoscitivo. Ci domandiamo: attraverso quale dinamica noi veniamo a conoscere il mondo esterno così come ci si presenta, e come possiamo giungere a formulare giudizi corrispondenti alla realtà? L’altro aspetto riguarda il valore della conoscenza, cioè: conosco o no oggettivamente la realtà così come mi si presenta? Richiamo sinteticamente tre grandi scuole filosofiche, emblematiche per evidenziare le diverse soluzioni che, nel corso della storia del pensiero, sono state proposte al problema gnoseologico. La scuola empirista inglese, che ha uno dei suoi epigoni in Hume, afferma che l’oggetto esterno, nell’atto in cui si presenta al soggetto conoscente, causa in lui delle alterazioni di tipo fisico – le cosiddette impressioni o idee, a seconda della loro maggiore o minore intensità – che costituiscono il dato conoscitivo. Sono reazioni di carattere fisiologico interno, o psicologico, corrispondenti appunto a fenomeni esterni, mediante le quali si perviene alla conoscenza. A questa scuola di pensiero è stata posta una obiezione di fondo: se l’idea differisce dall’impressione solo nel grado di intensità, ne consegue necessariamente che ogni idea non è altro che una immagine e, come tale, individuale e particolare. Quale valore universale può dunque avere? Ha il valore – così rispondono gli empiristi – derivante dal fatto che essa risulta dall’associazione di tutte le impressioni ricevute fino allora, ma non ne ha uno ulteriore, che superi quello delle singole impressioni. Ad esempio, l’idea di uomo è la risultante della somma di tutti gli uomini conosciuti; non è dunque un concetto di per sé trascendentale, universale. Raccogliendo la problematica suscitata dall’empirismo, Kant opera, nel processo conoscitivo, quella che egli definisce una rivoluzione copernicana , consistente nello spostamento del baricentro della ricerca dagli oggetti alla ragione umana e nella scoperta che la ragione trova nella natura ciò che essa stessa vi pone. In altre parole, Kant ritiene che non sia il soggetto che, conoscendo, scopre le leggi dell’oggetto, ma che, viceversa, sia l’oggetto che si adatta, allorché viene conosciuto, alle leggi del soggetto che lo riceve conoscitivamente. È la cosiddetta sintesi a priori: Noi delle cose – afferma Kant – non conosciamo se non quello che noi stessi vi mettiamo. In tale direzione, di portata teoretica incalcolabile, si muove l’idealismo che vi compie un passo ulteriore, affermando il carattere della conoscenza come del tutto immanente al soggetto stesso. A questo punto l’accento è posto non sulla conoscenza del mondo esterno in sé, che sembra anzi perdere così la sua consistenza, ma sul procedere stesso della conoscenza nel soggetto, il quale, a partire dalla coscienza empirica, si innalza a livelli sempre più alti, fino a giungere alla forma di un Sapere assoluto. È, quello dell’idealismo, un itinerario che ripercorre le tappe dell’apparire fenomenologico – hegelianamente inteso – dello Spirito universale, unico Spirito pensante, presente in tutti gli uomini e agente nella storia, la cui verità di continuo si va arricchendo dialetticamente. Concezione, questa, che, se da un lato sembra far propria l’esigenza cristiana di un positivo anelito all’unità, dall’altro porta in sé germi da cui si origineranno in seguito forme di pensiero e visioni del mondo dalle conseguenze storiche talora tragiche. La terza grande scuola che vorrei richiamare è quella che, iniziata in certo senso da Platone, prosegue con Aristotele, quindi con Tommaso d’Aquino e successivamente nella corrente tomista, a tutt’oggi presente in varie forme. La concezione di fondo, che accomuna, pur con le debite differenziazioni, questi pensatori, consiste nel ritenere che l’oggetto esterno provoca nel soggetto conoscente impressioni sensibili le quali, essendo egli un soggetto spirituale, vengono da lui rese anch’esse spirituali, e, essendo rese tali, perdono il loro carattere individuale e ne acquistano uno universale, di valore assoluto. Le cose, dunque, si conoscono in quanto spiritualizzate, attraverso cioè quella immagine che risulta essere la sintesi di ciò che vien dato dal di fuori con ciò che il soggetto vi apporta dal di dentro di sé e che è qualcosa di immanente a lui stesso, non però in senso idealista, dal momento che ha una sua corrispondenza con le cose stesse. Raccogliendo le sollecitazioni e gli apporti positivi provenienti dalle scuole richiamate, cerco ora di delineare un paradigma conoscitivo aperto a quegli orizzonti di verità offerti dalla rivelazione cristiana e avente come modello la dinamica di vita intratrinitaria. Se consideriamo la generazione del Verbo in seno alla Trinità, vediamo manifestarsi in essa i tratti dell’atto intellettivo per eccellenza: il Padre genera il Verbo mediante un atto immanente alla natura divina che conosce sé stessa. La scuola tomista mi sembra che abbia intravisto l’intrinseca analogia fra tale atto e il modo di conoscere umano. Afferma infatti che il pensiero conosce nell’atto in cui genera il verbo umano immanente in sé. In questo atto generativo del verbo interno umano, si rende intellettuale l’oggetto conosciuto, lo si spiritualizza, per così dire, e lo si conosce come oggetto del conoscere. Questa teoria cerca di salvaguardare la consistenza oggettiva di ciò che è esterno al soggetto e la sua conformità con quanto egli conosce di esso per l’intercorrervi di una corrispondenza, e soprattutto perché fa terminare l’atto del pensiero nel giudizio, in cui esso approda al reale oggettivo. Ma l’atto intellettivo come tale riesce a sottrarsi, in questa visione, a una forma sia pur velata di idealismo? Ecco, allora, la domanda: come posso conoscere l’oggetto esterno, non solo come presente in me, ma anche come fuori di me? Come posso intendere il fatto che conoscere è generare? In realtà, penso che si possa affermare che io conosco l’oggetto a un tempo come dentro di me e come fuori di me: dentro di me per quel tanto che da me procede, fuori di me per quel tanto che mi si da dall’esterno e che non proviene da me, ma da Dio. Proviene da me quel tanto di conoscenza che io possiedo dell’oggetto che io rendo intelligibile a me stesso; per quel tanto che è ancora inintelligibile, esso lo è in quanto proviene non da me, ma dall’atto creativo di Dio. Quindi, posso conoscere direttamente l’oggetto, ma perché il mio conoscere è un entrare in relazione con esso. Cerchiamo di comprendere più in profondità in che cosa consista questa relazione. Domandiamoci: come vede Dio l’oggetto del mio conoscere? Lo vede come si presenta a me o in maniera completamente diversa, cioè come una partecipazione di sé, del suo stesso Essere? Perché, se lo vede come una partecipazione di sé, quindi non come lo vedo io, ciò vuol dire che io vedo quell’oggetto non come è nella sua realtà, ma come io lo rendo a me comprensibile, per quel tanto di me che io proietto in esso e che me lo rende così come io lo vedo. Se, allora, per me l’oggetto è intelligibile solo per quella parte di esso che ho razionalizzato, e che in fondo è proiezione di me in esso, per Dio è tutto intelligibile perché è tutto da lui generato, ed è generato ad extra, come altro da sé. In questa luce, possiamo compiere un passo in avanti nella comprensione dell’atto conoscitivo: esso di fatto è generante perché io, creatura intelligente, partecipando dell’intelletto divino, sono reso capace di entrare in relazione con l’oggetto esterno che mi si presenta; una relazione che, al tempo stesso, lo unisce a me e lo distingue da me. È, quindi, la mia, conoscenza immediata dell’oggetto e, insieme, mediata dal mio verbo interno che, generando appunto, nel modo spiegato, l’oggetto, me lo rende intelligibile. Mi sembra che tutto ciò apra ad una soluzione alle domande – siano esse di stampo empirista o idealista – rimaste finora insolute. È vero, infatti, che le cose sono così come io le vedo, ma è anche vero che esse non sono proprio così come io le vedo, e come sono invece agli occhi di Dio, dell’Essere assoluto, che è la Realtà di tutto. Le cose sono così come le vedo perché, essendo io partecipe dell’intelligenza divina, conoscendole, non le deformo nella loro realtà; però, essendo anch’esse partecipazione dell’Essere divino, neanche sono del tutto così come si presentano a me. Sono piuttosto così per me adesso, in questo mondo, nella situazione storica, esistenziale in cui mi trovo. Potrò vederle invece esattamente come sono quando, superato ogni limite spazio-temporale, vivrò nella pienezza escatologica. Potrei vederle però già così sulla terra se le vedessi con l’occhio di Dio. A ciò può prepararci la vita della grazia, la fede, che trasforma fin d’ora la nostra visione delle cose, come inizio di ciò che sarà, di ciò che vedrò nell’aldilà, quando vedrò come Dio genera le cose: parteciperò in Dio, come verbo nel Verbo, a questa loro generazione. Solo allora le conoscerò completamente. Concludendo: se il conoscere consiste nel proiettare la mia ragione nell’essere delle cose che mi si presentano dall’esterno, allora io conosco nella misura in cui mi dono, in quanto razionalità, alle cose stesse. In questa donazione mi distinguo da esse e le conosco come oggetto, mentre le cose, a loro volta, mi si ridonano in quanto fatte razionali. È il mistero dell’essere come dono, come relazione, che informa di sé anche l’aspetto conoscitivo, e trova la sua assoluta perfezione in Dio Trinità. Egli si conosce pienamente nel dono, perché il conoscersi in Dio è il trasfondersi della natura divina dal Padre nel Figlio. Quando anche il nostro essere parteciperà totalmente di lui, allora anche noi conosceremo pienamente.

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