“Il clandestino” e “Ripley”, tra inganni e verità

Un confronto tra due serie tv, una italiana l'altra americana, da vedere su Rai1 e Netflix, che portano sullo schermo il tema complesso della relazione con se stessi e gli altri, dove finisce finisce l'onestà e inizia la menzogna? E come convivere col senso di colpa?
Edoardo Leo in "Il clandestino" (ph ChiaraCalabrò)

Cos’hanno in comune, la serie italiana Il clandestino, su Rai1 dall’8 aprile scorso, per 6 serate ogni lunedì, e l’americana Ripley, stilisticamente raffinata e potente, su Netflix da qualche giorno? L’Italia, certamente, perché la prima è ambientata a Milano e la seconda nella stupenda costiera campana di Atrani, oltrechè a Roma, Napoli, Palermo e Venezia. Al netto di una distanza temporale di oltre mezzo secolo (la seconda è ambientata negli anni ’60 e la prima nel nostro tempo multietnico), lo spazio in comune è certamente quello della nostra Nazione, con le sue bellezze naturali e architettoniche. C’è un tema più sottile, tuttavia, sotterraneo e interessante, che lega questi due racconti piuttosto diversi tra loro: è quello dell’identità, accompagnato ai concetti di verità e onestà con l’altro. Il clandestino, diretta da Rolando Ravello con Edoardo Leo nei panni di Luca, è un poliziesco intriso di contemporaneità, visto che i casi affrontati di volta in volta dal protagonista, ci parlano (anche) di immigrazione, musica trap, organizzazioni criminali e differenze culturali. Se in ogni episodio viene risolto un caso, orizzontalmente, ovvero trasversalmente tre le varie puntate, c’è il racconto del dolore e della delusione personale di Luca, che in seguito a un attentato terroristico (è stato ispettore capo con un ruolo importante nell’antiterrorismo) ha perso la compagna e un suo collega rischia di non camminare più. Per il senso di colpa Luca si è smarrito, annichilito, ma ora, grazie a un bizzarro personaggio, sta provando a ricominciare a vivere, lavorando come investigatore privato.

EdoardoLeo e HassaniShapi (ph ChiaraCalabrò)

Ad aggravare il suo spegnimento, a irrobustire il tema della menzogna, dell’abuso dell’altro con la falsa identità, pesa il fatto che a compiere l’attentato è stata – questo dicono le indagini – la sua compagna, la donna di cui Luca era follemente innamorato. «Le persone non sono mai quello che sembrano», egli sospira di fronte a situazioni che lo riportano al suo incubo, che volteggiano nella sua mente prendendo la ripetuta forma di immagini in bianco e nero. Al trauma delle armi, della violenza barbara e inspiegabile, c’è quella del tradimento, della fiducia sbranata.

C’è un tarlo che rode la vita di Luca: è il pensiero che molte persone sanno ingannare. Una di queste è certamente Tom Ripley (Andrew Scott), il protagonista della serie diretta dal premio Oscar Steven Zaillian, scritta bene e girata meglio, in un bianco e nero pittorico, con inquadrature ricercate e una tensione narrativa costante. Tom − forse per un trauma vissuto in età evolutiva, non abbiamo prove, solo ipotesi − vive truffando, senza fertilità alcuna, e quando si imbatte nella vita di un giovane ricco americano che vive nella splendida località di Atrani, a pochi chilometri da Amalfi, decide lentamente di prendersela, di rubargli l’identità. Inizia per lui un cieco viaggio negli abissi fatto di un primo omicidio e di accumulo di menzogne. Di fughe continue, di travestimenti, di slalom tra le persone e di un secondo omicidio. Di raggiro degli altri e inevitabilmente di solitudine. Di altre menzogne nella speranza, vana alla fine del racconto, di spuntarla. Perché il male sembra vincere, ma non vince mai.

“Ripley”. Andrew Scott è Tom Ripley. Cr. Courtesy of Netflix © 2024

Intorno a Tom, in contrasto con lui, c’è l’Italia della dolce vita, di Mina e Tony Renis, dei profumi e del cielo in una stanza. L’Italia dolce e incantevole, lirica e temperata, altissima e placida, esotica e quasi dipinta da un americano. Tom l’attraversa senza assaporarla, eccezion fatta per le opere di Caravaggio conosciute attraverso il finto amico a cui ha tolto vita e identità. In questo caso, però, il trasporto emotivo verso i quadri del grande artista è dovuto alla violenza che ha toccato direttamente lo stesso Caravaggio, e in qualche modo Tom Ripley, nei rari casi di riflessione psicologica, sembra cercare un disperato paragone col pittore lombardo. Il quale però ha prodotto capolavori immortali, mentre Tom, già cinema (per esempio) con Il talento di Mr. Ripley, rimane un falsario a tutto tondo, uno che non porta frutto ma solo dolore. Agli altri e in fondo a se stesso, perché che senso ha una vita così? La sua massima aspirazione, oltre il terrore di essere scoperto, oltre l’ansioso e ansiogeno affanno di non far uscire prove da ogni suo gesto o parola, è di farla franca. E tutto il resto? La vita? le relazioni, la pace, la fecondità? Tutto gettato via. Per sempre.

Tom e Luca, distanti per numerosi motivi, possono insieme raccontare il dramma dell’inganno, del raggiro, della sopraffazione dell’altro per interessi personali per altro decisamente discutibili. Ci aiutano a leggere le conseguenze di chi subisce il tradimento, ma anche di chi lo agisce. Perché deludere volontariamente significa negare sia a noi stessi che agli altri la bellezza dell’umanità.

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