I tanti ostacoli per la pace in Terra Santa, intervista a Hulda Liberanome

Il legame profondo con Israele. L’amicizia con Giorgio La Pira. Intervista sulla lacerante questione israelopalestinese a Hulda Liberanome, direttrice del periodico Toscana ebraica
Israele. Marcia per la liberazione degli ostaggi da Tel Aviv a Gerusalemme ANSA/YAHAV TRUDLER

Hulda Brawer Liberanome vive a Firenze dal 1955, appartiene alla piccola e vivace comunica ebraica italiana. La sua è una storia che affonda le radici nel cuore della questione israelopalestinese dato che il padre si trasferì già nel 1910 in Terra Santa, quindi negli ultimi anni della dominazione ottomana, prima del mandato britannico seguente alla fine della grande guerra che sconquassò l’assesto dei grandi imperi.

La sua famiglia proviene dalla mitteleuropa, dove lei è nata a Vienna nel 1930, e rappresenta l’esempio di una migrazione antecedente il grande flusso seguente all’avvento del nazifascismo e gli orrori della Seconda guerra mondiale.

Hulda ha lavorato come giornalista corrispondente per importanti quotidiani israeliani quali Haaretz e ora dirige il periodico Toscana ebraica. Laureata alla London School of Economics, ha vissuto in diretta la nascita dello stato di Israele dove ha prestato servizio militare prima di sposarsi e trasferirsi in Italia nella Firenze dell’epoca straordinaria di Giorgio La Pira.

Iniziamo perciò quest’intervista ad una persona d’eccezione sull’attualità traumatica di questi giorni partendo dal rapporto con quel sindaco che ha legato in maniera particolare quella città con Gerusalemme e la visione del realismo profetico della pace che oggi è messo fortemente in discussione.

Come è stato il suo rapporto con Giorgio La Pira?
Molto intenso. C’è stato un periodo in cui ci sentivamo tutti i giorni.

Parliamo di un personaggio fuori dagli schemi…
Assolutamente e in tuti i sensi, perché lui vedeva il mondo in un altro modo. Molto ottimista e, secondo molti, non realista.

È il destino dei profeti, se non sono quelli di sventura…
Certo, ma nel suo caso si trattava di un sindaco di una città importante, di un politico che doveva fare i conti con chi lo appoggiava davvero e alla fine, come sappiamo, è stato fatto fuori dal suo stesso partito, la Dc.

Non è stato inevitabile, dato le sue posizioni controcorrente?
Forse.

Se vogliamo cedere a un certo pessimismo dovremmo riconoscere che oggi ci troviamo in uno scenario che è tutto il contrario di quello promosso da La Pira, perché il Mediterraneo non è il grande lago di pace di Tiberiade, ma un luogo di scontro geopolitico, mentre in Terra Santa è in atto una guerra spaventosa che atterrisce dove non si vede una soluzione.
La soluzione ci sarebbe ma appartiene ad un tempo ormai passato. La votazione dell’Onu del 1947 prevedeva la formazione dei due Stati alla fine di un lungo periodo del mandato britannico cominciato di fatto nel 1917 dopo la liberazione dalla dominazione ottomana di ciò che lei ha chiamato Terra Santa. Gli anni del mandato britannico sono stati decisivi per la sistemazione amministrativa di quel territorio a cominciare dall’organizzazione scolastica.

La soluzione dei due Stati però non fu accettata dai Paesi arabi che scatenarono una guerra contro Israele nel 1948. Per noi, che ci siamo trovati attaccati da una vasta coalizione che andava dalla Siria all’Egitto, si è trattato di una guerra d’indipendenza. I confini di Israele del 1948 si sono poi allargati con la guerra dei 6 giorni del 1967, anche questa dovuta all’iniziativa dei Paesi arabi. Si tratta di definizioni geografiche, la cosiddetta linea verde, che non sono riconosciute a livello internazionale. Tutti i successivi conflitti armati hanno portato ad ulteriori allargamenti di Israele come ad esempio la guerra del Kippur del 1973 che portò ad occupare la penisola del Sinai, salvo poi ritirarsi da quell’area per la forte pressione esercitata da Francia e Gran Bretagna che controllavano il canale di Suez.

La situazione si è andata ad aggravare anche perché la Palestina non è riconosciuta da tutti come Stato tanto che è stata accolta nell’Onu come osservatore speciale, mentre nei territori assegnati all’ANP, già ampiamenti ridotti rispetto alla divisione iniziale, si trovano migliaia di coloni ebrei decisi ad usare le armi per prendere possesso di terreni e case dei palestinesi. Non è questo un fattore di istigazione all’odio?
Personalmente sono decisamente contraria alla politica di Netanyahu e della coalizione di destra centro che lo sostiene. Ho partecipato alle grandi manifestazioni organizzate ogni sabato da oltre un anno contro le scelte sbagliate di questo esecutivo. Ogni giorno viene organizzata una protesta davanti la casa di Netanyahu a Gerusalemme, ma egli non ha nessuna intenzione di sciogliere il governo perché sa bene che perderebbe le elezioni. Si trova così a portare avanti il conflitto per restare in sella pure se buona parte del Paese non lo vuole come premier.

Non sembra che sia così. Alla fine non viene sempre eletto e riesce a formare un governo ormai da parecchi anni a questa parte?
È abile a manovrare un parlamento estremamente frammentato con 11 partiti eletti con un sistema proporzionale puro. Il suo partito, il Likud, non va oltre il 26%. Per andare avanti si appoggia all’ultradestra nazionalista che gli permette di avere una risicata maggioranza di 5 voti superiori alla metà del Parlamento composto da 120 membri. Quando leggo le dichiarazioni dei suoi alleati dell’estrema destra ne rimango atterrita e sconsolata anche per i riferimenti di carattere religioso decisamente intollerabili.

Questa determinazione è alla radice del bombardamento a tappeto di Gaza che, comunque lo si voglia chiamare, è qualcosa che ripugna la coscienza umana. Anche il Parlamento italiano è stato concorde nel chiedere il cessate il fuoco. Come si esce fuori da tale tragedia?
Purtroppo il permanere dello stato di guerra è funzionale a tenere in piedi il governo. L’opposizione popolare contro Netanyahu che è giunta fino a proclamare lo sciopero generale non è riuscita a prendere una forma politica. L’unica strada è quella di una rivolta interna all’esercito da parte dei generali che potrebbero dire “ora basta!”. Finora i due ex capi di stato maggiore, che fanno parte del gabinetto di guerra, sono riusciti solo a porre alcuni limiti. La situazione resta in uno stato di stallo nonostante tanti segnali di crisi economica.

Perché gli Usa non fanno leva sulla loro fornitura di armi per imporre il cessate il fuoco? La destabilizzazione del Medio Oriente produce effetti a catena che vanno contro gli interessi Usa. Possibile che una superpotenza si limiti alla pressione morale?
La situazione è complessa. Gli americani hanno molti interessi vitali in quell’area dove agisce l’Iran che porta avanti una strategia anti statunitense in combutta con la Russia.

Washington non può fare a meno di una base sicurissima per loro come è Israele che dispone di un esercito altamente efficiente. I vertici militari di Tel Aviv si sono tutti formati negli Usa. Netanyahu è molto scaltro nell’usare le sue carte come un giocatore d’azzardo vantandosi, tra la gioia dei suoi alleati ipernazionalisti, di essere l’unico che riesce a trattare alla pari con gli Usa che si trovano in momento delicato nell’anno dell’elezione presidenziale. Un gioco molto pericoloso perché nel momento in cui gli Stati Uniti dovessero smettere i rifornimenti, Israele non riuscirebbe a difendersi da solo che pochi giorni. Occorre non prendere sotto gamba certe affermazioni dei repubblicani nel congresso Usa. Mentre si gioca d’azzardo muore tanta gente. Questa è l’amara realtà.

Si è esaurita del tutto in Israele l’eredità politica e culturale di Rabin e Shimon Peres?
Devo dire con enorme dispiacere che sono state perse in passato tutte le occasioni per chiudere la faccenda da parte dei Paesi arabi e degli stessi palestinesi. Giustamente Clinton disse ad Arafat che la proposta avanzata da Barak durante il vertice di Camp David nel 2000 era la più avanzata possibile, ma il leader palestinese si sottrasse da quell’accordo che ora appare impossibile con governi di destra sempre più estremi. Oggi i palestinesi chiedono ciò che gli era stato offerto 20 anni prima su un vassoio d’argento.

L’Italia conosce il valore degli accordi territoriali sull’Alto Adige che hanno sistemato la questione perché realisticamente non si poteva pretendere di riavere Fiume o l’Istria.

Ma oggi è realistico o è solo utopia chiedere il riconoscimento dello Stato di Palestina come premessa per una soluzione di convivenza dei due popoli?
Una parte degli israeliani è favorevole alla soluzione dei due Stati perché non vedono altre vie di uscita dal problema. Ma la destra ora al governo e soprattutto gli estremisti che ne fanno parte usano toni messianici inquietanti. Penso al ministro Ben Gvir che dice cose terribili. Ne parlo spesso con i miei parenti in Israele che sono scoraggiati da questa piega assunta nel Paese che non offre una visione possibile di futuro se non un conflitto permanente. Solo chi è molto ricco, d’altra parte, può pensare di andarsene all’estero. Un cambiamento possibile potrebbe arrivare da Yair Lapid che è a capo di un partito centrista e laico in grado di sostituire nell’esecutivo gli estremisti della destra ipernazionalista. Ma neanche questa soluzione possibile senza arrivare alle elezioni è accettata da Netanyahu che, ripeto, resta in piedi finché ci sarà la guerra. E sarà inevitabile, prima o poi, che verrà in evidenza, con una commissione d’inchiesta, il fatto che la strage di Hamas del 7 ottobre è stata favorita dal fatto di aver sguarnito la presenza dell’esercito a confine con Gaza per spostare le truppe israeliane a sostegno dell’attività dei coloni nei territori occupati palestinesi.

Dall’altra parte, tra i palestinesi, a suo parere, vista la crisi dell’Anp, esiste una possibile leadership in grado di giungere ad un accordo credibile con Israele?
Con Hamas non si può trattare perché vogliono la distruzione di Israele. È triste doverlo ammettere ma l’Anp di Abu Mazen è molto debole, non gode del prestigio dei palestinesi, anche per colpa dei governi israeliani ma soprattutto per ragioni interne di mancanza di credibilità.

È possibile puntare su Marwan Barghouti, il cosiddetto Mandela palestinese che si trova in carcere dal 2002, che sembra aver un consenso popolare superiore ad Hamas?
Credo che Barghouti avrebbe un sostegno elettorale adeguato ma la sua liberazione può avvenire in base ad un accordo politico condiviso perché non è recluso in maniera arbitraria ma su di lui esiste una sentenza di condanna emessa da un tribunale di Israele. Se si vuole si può comunque trovare una via di uscita.

 Cosa può fare l’Italia?
Occorre dire che non ha un peso geopolitico importante ma ha una posizione strategica nel Mediterraneo. Deve fare di tutto per aumentare la pressione sul governo Netanyahu assieme a tutti i Paesi europei, ma, mi duole dirlo, l’Europa può fare poco se non si dota di una forza di difesa autonoma. Non può basarsi solo sulla presenza delle basi Usa nei Paesi dell’Alleanza atlantica. Sappiamo che l’Ucraina sta ancora in piedi per gli aiuti militari statunitensi e in parte minore per quelli tedeschi. Ma tale situazione non può durare all’infinito.

Che pressione dovrebbe fare l’Europa ad esempio sullo status di Gerusalemme?
Non credo che sia realizzabile lo statuto internazionale della città ma credo che sia inevitabile che una parte di essa appartenga alla Palestina e che si stabilisca un accordo per permettere il libero accesso ai fedeli delle tre religioni monoteistiche che si riconoscono nell’eredità di Abramo.

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