I nuovi equilibri instabili del terrore

Immutata nel 2013, secondo l’istituto Sipri, la cifra di 1750 miliardi di dollari destinati a eserciti e armi. Crescono Cina, Russia e Arabia Saudita, ma restano predominanti gli Stati Uniti. Per rispondere a questa logica, che prepara nuove guerre, movimenti e reti italiane per la pace si danno appuntamento il 25 aprile all’Arena di Verona
Guerra Desert storm

Come ogni anno il Sipri, autorevole Istituto svedese di ricerca sulla pace, rende pubblici i dati mondiali sulle spese militari mondiali. Il dato è molto importante se lo si valuta nella prospettiva dell’equilibrio instabile dell’economia mondiale. Le scelte di politica internazionale e i conseguenti conflitti planetari attirano una massa enorme di denaro che viene sottratta ad altre migliori finalità come la lotta alla povertà. La prima grande recessione del secondo dopoguerra è avvenuta, infatti, con le operazioni statunitensi in Vietnam, così come la crisi da cui non riusciamo ad uscire ha un evidente legame con la serie di conflitti scatenati fin dal 1991 in Iraq con l’operazione “Desert storm”.   

Secondo il Sipri,come riporta Rete Disarmo, il dato generale delle spese militari nel 2013 resta attestato su 1.747 miliardi di dollari, anche se cambia la distribuzione della percentuale tra i diversi Paesi, con una flessione di quelli occidentali e l’aumento, invece, di Cina (+7,4 per cento), Russia (+4,7 per cento) e Arabia Saudita (+14 per cento). Anche le nazioni africane nel loro complesso fanno registrare un aumento significativo dell’8,3 per cento. Come interpretare questi numeri?

Ovviamente, come fa notare Giorgio Beretta, analista di Opal (Osservatorio permanente sulle armi leggere
e politiche di sicurezza e difesa), gli Stati Uniti restano sempre il Paese che «più spende in armamenti (640 miliardi di dollari pari al 37 per cento del totale mondiale)», mentre l’insieme delle nazioni dell’Unione europea «sono al secondo posto per spese militari (279 miliardi di dollari pari al 16 per cento del totale mondiale) superando di gran lunga la Cina (stima di 188 miliardi) e la Russia (stima di 88 miliardi)». Se si entra nel dettaglio, l’Europa, secondo Beretta, spende ancora molto «per il personale di 28 forze armate, mentre i sistemi militari mostrano sovrapposizioni e necessitano di una chiara razionalizzazione». Il processo di riorganizzazione in questo campo è, infatti, una delle questioni aperte nel vecchio continente che potrebbe liberare risorse da destinare, a seconda delle varie politiche, per nuovi sistemi di arma o per combattere altre battaglie come quella contro la  disoccupazione.

Come ha fatto notare papa Francesco nel messaggio del primo gennaio 2014 sulla “fraternità via della pace”, «finché ci sarà una così grande quantità di armamenti in circolazione come quella attuale, si potranno sempre trovare nuovi pretesti per avviare le ostilità. Per questo faccio mio l’appello dei miei predecessori in favore della non proliferazione delle armi e del disarmo da parte di tutti, a cominciare dal disarmo nucleare e chimico».

Come sa bene chi conosce la storia, ogni evento traumatico che ha condotto alle guerre ha avuto un’origine banale, ma tale da costituire la “scintilla” pronta ad infiammare gli arsenali già pronti all’uso. Ed episodi come quello riportato, a proposito della vicenda ucraina, dalle agenzie di stampa sull’aereo da caccia russo che sabato 12 aprile ha volato per 90 minuti a bassa quota sopra la Donald Cook, nave da guerra degli Usa sul Mar Nero, non sono affatto da trascurare.

Le realtà sociali a favore della pace, che hanno mantenuto questa consapevolezza da molti rimossa, devono ancora uscire dallo smarrimento successivo alle grandi manifestazioni del 2003, praticamente ignorate dalle vecchie e nuove cancellerie che credono di avere il destino del mondo nelle loro mani. Il prossimo 25 aprile, giorno della Liberazione, numerose organizzazioni della società civile italiana si sono dati appuntamento all’Arena di Verona per rilanciare temi e campagne sul controllo degli armamenti. Forse è venuto di nuovo il tempo, nel pieno di un periodo dove si sperimentano nuove povertà e vulnerabilità, per rimettere in discussione l’apparente logicità di politiche autodistruttive.  

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