I gemiti di Basquiat

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Ci sono persone (e artisti) che si trovano bene dappertutto e da nessuna parte. Perché, come i bambini, succhiano l’attimo e il giorno così totalmente da renderlo quasi eterno: per poi volar via. Di qui la passione per la vita in ogni suo frammento, la velocità nel coglierla: il gusto di divorare la storia: la loro, personale, quella passata e quella che li circonda. Bruciano, e sono bruciati. Così è accaduto a Jean- Michel Basquiat, nato a Brooklyn e morto per overdose a ventott’anni nel 1988. La sua opera ci può apparire, di primo acchito, confusa, irrespirabile. Eppure ci attira irresistibilmente. E se ci si domanda il perché, forse la risposta – ma solo dopo aver visto e meditato i suoi lavori – sta nel fatto che anch’egli, come noi tutti, è uninguaribile ricercatore di immortalità. Basquiat non lascia che l’eterno gli appaia: lo cerca “per accumulazione”: di scritte, segni, oggetti, tinte. Schiavo della moda artistica newyorkese anni Ottanta del XX secolo? Può darsi; certo alcuni lavori trasudano autoaffermazione eccessiva, sperimentazione fine a sé stessa, narcisismo. Basquiat, l’ex pittore di graffiti nell’underground metropolitano, sa essere anche irriverente, caustico, estemo: nella vita e nell’arte. Allucinato, in alcuni momenti. Ma ha qualcosa, molto, da dire. Libero da tutto – dipinge su muri, cartoni, tele, scatole e così via -, pregno come una divinità antica di substrati di civiltà afroamericana, con una “sua” cultura (da Kerouac alla musica rap al Rinascimento toscano) è un comunicatore frenetico tout-court. Il Self- Portrait dell’82, in cui la vita è concentrata negli enormi occhi spalancati, è l’apparizione di un feticcio arcaico che guarda e grida. Lo spasimo dell’esistere si condensa nei volti. Basquiat abbozza le figure intere, ma dilata soprattutto gli occhi. Mescola con tratti volutamente infantili esplosioni acute di colore ad anagrammi, citazioni, ricordi, banalità: assorbe ogni mezzo di comunicazione nel tentativo di ricomporre un’unità perduta di tutto ciò che esiste. In un mondo in cui avverte che l’essere s’è frammentato, tenta inconsciamente di ricomporlo in una nuova totalità. Parola segno colore tutto viene coagulato: una sintesi a prima vista sommaria, sconcertante: in realtà ricca di contatti e di contrasti, complessa. Ma pure velocissima. New York New York dell’81 è una tela dove la vita sfreccia in un dinamismo folle, con il colore compresso in strisce e chiazze biancorosso- nere: l’immancabile maschera (la vita, la morte, l’attesa?) al centro: una vita impazzita, cui sembra impossibile sottrarsi. È questo il nostro mondo, questo ciò che l’uomo costruisce? Basquiat non evade liricamente dal flusso metropolitano, non può e non vuole (forse). La sua vita, esaltante e struggente, egli la dice con la frenetica chiarezza di un videoclip. Intuisce che un demone di morte sta in agguato nella nostra superciviltà: esso getta sangue e succhia sangue dalle anime, come nell’incompiuto Devil dell’81, fra colate di rossi e di neri. Parrebbe quasi che l’artista, programmando o prevedendo la sua fulminea dipartita dalla scena del mondo, l’abbia insieme voluta esorcizzare ed attendere. Ma di sé stesso ha comunicato tutto.Magari per eccesso. Ne è una prova la fa- mosa Mona Lisa dell’83. Irresistibilmente attratto da Leonardo (esiste una sua versione della Madonna col bambino) forse perché in lui ritrovava la medesima ansia di scoprire e dire Tutto, quest’infaticabile disegnatore “bruttifica la bellezza ideale”. Del celebrato sorriso restano trame di fili sottili, macchie rosse e marroni. Divertissement o voglia sacrilega per un’icona della civiltà occidentale? Non sembra. Gli occhi immensi, cerchiati di sangue, vivono di una tristezza enorme. Come se dovesse nascere qualcosa che fatica a venire alla luce. Un gemito. È una umanità diversa che geme nella ricerca di nuove icone, di nuove sintesi: in definitiva, di un’altra manifestazione della bellezza dell’essere. Perciò, oltre l’apparente oltraggio e al di là degli eccessi, il discorso di Basquiat è terribilmente serio: e tutti i suoi lavori appaiono gemiti di uno spirito diviso che cerca e ancora non trova pace. Intitolando Icarus Esso un lavoro dell’86 – a due anni dalla morte – il pittore si identifica nel mitico cercatore di luce. Nel miscuglio dissonante e visionario di dubbi, accostamenti e dissacrazioni, egli vuole volare in alto. Verso un sole. Nel volo, gli si son bruciate le ali. Drammaticamente. Ma il sole, forse, l’ha intravisto. Mario Dal Bello Jean-Michel Basquiat. Dipinti. Roma, Chiostro del Bramante. Fino al 17.3 (Catalogo Electa). Una vita “etrema” 1960: nasce Brooklyn (New York) da madre portoricana e padre haitiano. Cresce nell’ambiente agiato della media borghesia, frequenta una scuola cattolica privata. suoi, la madre, in particolare, sostengono precoce vocazione disegno. 1976: dopo una ritorna a New York, conosce il graffitista Diaz e con lui dipinghe “a spray” a Manhattan. Nuova fuga e droga. 1978: lascia sempre la famiglia vive da solo. Conosce musicisti e artisti, di notte, forma gruppo musicale. Nell’80 partecipa una esposizione gruppo, conosce Warhol. 1982: annno di gloria: prima mostra personale in Usa, poi a Zurigo, Rotterdam, successo con i collezionisti privati; primo artista “nero” di fama mondiale. 1987: mostra a Parigi, viaggio in Europa, morte d e l l ‘ a m i c o Warhol. Successi e contrasti. 1988: il 12 agosto, viene trovato morto per overdose di eroina.

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