Giuditta: Tacete, o maschi!

L'astuzia e il coraggio di una semplice donna contro i potenti della guerra per la salvezza del suo popolo
Part. del dipinto "Giuditta e Oloferne" di Artemisia Gentileschi (1614–1620), Galleria degli Uffizi, Firenze.

Leonora dei Conti della Genga, di Fabriano, era una tipa anticonvenzionale. Femminista antelitteram, nel sonetto dal titolo Tacete, o maschi, scritto attorno al 1360, sosteneva con forza che le donne «sanno maneggiar le spade e sostener gli imperi». Ben detto, Leonora! Ma quasi 2000 anni prima di lei, una eroina della Bibbia non solo aveva scritto che poteva maneggiar la spada e mettere a tacere i maschi, ma l’aveva fatto per davvero. Si tratta di Giuditta. Il suo nome significa “la giudea”. Come per dire, non una qualunque, ma una specie di “madre della patria”, una che ‒ come Ester, Debora e Giaele ‒ ha salvato il suo popolo.

Giuditta è di Betulia, un posto immaginario, come la Vigata di Montalbano, ma che ha un’assonanza con Bet-El, “casa di Dio”, il posto dove secoli prima erano stati Abramo, Giacobbe e i loro clan. La storia narra, prendendosi molta libertà geografiche e storiche nel confondere assiri e babilonesi, che i medi e altre popolazioni si erano ribellate all’Assiria. Tra i ribelli c’erano pure i Giudei.

Il re assiro prima si occupò dei Medi, sterminandoli senza troppi problemi. Poi, volle togliersi lo sfizio di sistemare anche gli ebrei. Mandò contro di loro le truppe del generale Oloferne. Un uomo feroce. Che quella volta, invece di un attacco frontale, preferì circondare la città, accampandosi di fronte ad essa. Gli abitanti avrebbero fatto una fine straziante, morendo di fame e di sete, e lui si sarebbe goduto il macabro spettacolo dalla collina di fronte, attendendo la resa. Dopo 35 giorni d’assedio la città era in ginocchio. I cittadini stremati, scongiuravano i loro capi di arrendersi al nemico. Le preghiere a Dio non erano servite a nulla, erano rimaste inascoltate, rispedite al mittente.

Uno di loro decise di dare a Dio ancora una chance di 5 giorni. Se in quel tempo Dio non sarebbe intervenuto, si sarebbero arresi. L’esercito di Oloferne era tutt’attorno, grandioso, incuteva pensieri terrificanti agli abitanti di Beulia. Fu in quel frangente che entrò in scena Giuditta. Era una donna giovane, vedova, molto bella, e anche ricca. Ma soprattutto era stimata per la sua saggezza e per la sua virtù, perché temeva Dio. A Giuditta non piaceva affatto quell’ultimatum di 5 giorni. Se Dio non rispondeva, forse una ragione c’era, pensava lei. Forse Dio credeva che loro stessi avessero la capacità di uscire vittoriosi da quel guaio. Qualcosa di simile accadde secoli dopo a Roma, quando, dopo la catastrofe di Canne, era data ormai per spacciata, nelle mani di Annibale, senza una possibilità al mondo di potersela cavare. Invece se la cavò, eccome. Ribaltando la storia. Ma torniamo a Betulia.

Giuditta chiamò gli anziani del popolo e li rimproverò senza mezze misure. La sua fede in Dio la portava a credere che l’Eterno non avrebbe abbandonato il suo popolo. Ma loro, dovevano darsi da fare. Ebbe un’idea audace. Espose il suo piano ai servizi segreti della città. Che rimasero perplessi, ma avevano altre possibilità? Le diedero il via libera all’operazione. Top secret. Giuditta chiamò la serva e, spogliandosi degli abiti della vedovanza, tirò fuori dai bauli le vesti più belle che aveva, «cinse le collane e infilò i braccialetti, gli anelli e gli orecchini e ogni altro ornamento che aveva e si rese molto affascinante agli sguardi di qualunque uomo che l’avesse vista».

Era così sexy, che qualcuno poi annotò nella Bibbia: «Chi disprezzerà un popolo che possiede tali donne?». Giuditta e la sua ancella uscirono di soppiatto dalla città assediata e s’avviarono verso il campo nemico. Le sentinelle assire le fermarono. Interrogarono Giuditta. Era una fuggitiva, traditrice del suo popolo, non ci si poteva fidare di lei. Ma era possibile ammazzare una donna così bella? Decisero di condurla da Oloferne. Secondo loro, avrebbe gradito. Oloferne la fece sedere accanto a sé, le chiese della situazione di Betulia. Giuditta fu convincente: Betulia era allo stremo, senza viveri, e i comandanti della città avevano pensato di consumare il cibo riservato ai sacerdoti, quello che Dio proibiva di toccare. Se avessero fatto così però i Betulesi si sarebbero macchiati di un gravissimo peccato: Dio li avrebbe abbandonati e consegnati ai nemici. Perciò lei era fuggita e chiedeva di poter restare nell’accampamento assiro.

Oloferne si beveva ogni parola di Giuditta. Ci cascò come una pera matura. Il resto è storia ben nota. In un incontro intimo tra i due, Giuditta sedusse Oloferne, e lo fece ubriacare. Mentre lui dormiva beato, russando rumorosamente, lei estrasse la spada e gli tagliò la testa.

Nel 1620, Artemisia Gentileschi rappresentò la scena con un tale realismo che Cosimo de’ Medici, che l’aveva commissionata, ne restò così turbato da far relegare il dipinto in un angolo oscuro di Palazzo Pitti. Ci volle la mediazione di Galileo Galilei per fare in modo che Artemisia ricevesse comunque il compenso pattuito.

Vedendo la testa mozzata del loro capo, gli assiri furono presi da sgomento e si diedero alla fuga. Giuditta, tornata a Betulia con la sua ancella, chiamò a sé le donne. Innalzarono tirsi, si incoronarono di fronde di ulivo, si misero a danzare, cantando: «Lodate il mio Dio con i timpani, cantate al Signore con cembali, elevate a lui l’accordo del salmo e della lode…». Sì, cantiamo e balliamo, noi donne. Questa volta abbiamo fatto tutto noi (con l’aiuto di Dio). Betulia è libera. Tacete o maschi!

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