Giacconi: un italiano che ha saputo guardare lontano

“Fermo così! Non si muova! “. In pochi istanti i raggi X penetrano nel nostro corpo e forniscono un’immagine del suo interno. Questa volta, la radiografia è stata fatta all’universo, osservando i raggi X emessi dalle stelle. Sfortunatamente per i fisici, ma fortunatamente per noi, queste radiazioni, pericolose se assorbite in dosi massicce, non riescono ad attraversare l’atmosfera: per rivelarle, occorre salire più di 100 chilometri, montando a bordo di un satellite strumenti sofisticatissimi. La loro osservazione, infatti, presenta un’ulteriore difficoltà: non si può usare un telescopio ottico, simile all’obiettivo di una macchina fotografica. Riccardo Giacconi, originario di Genova e laureato a Milano, è stato un pioniere in questo campo: a lui dobbiamo la scoperta della prima sorgente di raggi X nella costellazione dello Scorpione e la prima “radiografia” del Sole. Come Galileo, inventando il cannocchiale, ha esteso l’orizzonte di osservazione dell’uomo, Giacconi ha saputo ascoltare il canto dell’universo che ci raggiunge dalle profondità remote dello spazio, raccontandoci storie di vita nuova, come la nascita delle stelle, che sgorga da fenomeni a prima vista catastrofici, in cui la materia è spinta nelle condizioni più estreme nei turbolenti nuclei galattici, è scagliata a velocità impressionanti da stelle in esplosione o è sul punto di essere inghiottita, in un viaggio senza ritorno, da quei mostri cosmici che chiamiamo buchi neri. Condividono con Giacconi il premio Nobel l’americano Raymond Davis Jr. e il giapponese Masatoshi Koshiba, per i loro studi sui neutrini cosmici. I neutrini sono particelle sfuggenti e difficili da osservare perché interagiscono poco con la materia: possono attraversare indisturbati migliaia di chilometri di rocce. Proprio per questo, ci portano, alla velocità della luce, “notizie fresche” da regioni dell’universo nascoste da densi strati di materia, capaci di bloccare anche i raggi X. Per osservarli bisogna andare in fondo al mare, dove le altre particelle non arrivano, e aspettare che uno ogni tanto si faccia vedere, provocando un debolissimo bagliore rivelato da strumenti raffinatissimi disposti in aree estese per chilometri. La notizia che un italiano ha vinto il premio Nobel potrebbe inorgoglirci. Non dobbiamo dimenticare però che Giacconi è emigrato in America nel 1956 diventando cittadino statunitense nel 1977. A questo proposito ha dichiarato: “La stessa ricerca non sarebbe stata possibile in Italia”, e ancora: “Michelangelo diventò un grande artista perché aveva un muro da dipingere. Io quando ero in Italia, non avevo un muro… Per questo sono venuto via”. Le autorevoli affermazioni dell’ultimo Nobel italiano la dicono lunga sulla “fuga dei cervelli”, problema ancora irrisolto in un paese in cui ci sono 3,3 ricercatori per ogni 1000 lavoratori (contro i 5,7 in Europa) e la spesa per la ricerca è poco più della metà della media europea (nella ricerca di base siamo gli ultimi). La legge finanziaria, attualmente in discussione al parlamento, prevede per gli enti pubblici di ricerca ulteriori dolorosi tagli al budget e il blocco delle assunzioni a tempo indeterminato, non offrendo prospettive ai giovani ricercatori, spesso già mortificati da anni di precariato. Alcuni giustificano tale politica sostenendo che la ricerca di base abbia un impatto economico limitato. Per dimostrare il contrario basterebbe un esempio emblematico: alcune tecnologie, nate nella ricerca di base per scopi diversissimi, sono state utilizzate con successo nell’industria automobilistica. Siamo proprio sicuri che non ci sia legame tra scarso investimento nella ricerca e crisi della Fiat? C’è di che riflettere.

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