Fratelli tutti, le parole chiave

Dialogo con Massimo Toschi, già assessore regionale “alla cooperazione internazionale, perdono e riconciliazione tra i popoli”, sull’enciclica “Fratelli tutti”
Mani colorate

Sei uno studioso di storia della Chiesa, uno storico di formazione: da dove viene questa enciclica? Possiamo individuarne un percorso?

Può sembrare molto semplice quello che dico, ma l’enciclica viene dal papa. Può sembrare solo un’affermazione, ma è la verità. Il papa ci ha pensato molto prima di decidere di scrivere un’enciclica sulla guerra, sulla giustizia. Ha pensato molto, giustamente, perché comprendeva la difficoltà, la complessità di un’enciclica sulla pace. Poteva essere solo frutto di grazia, non di un’astuzia: con tre frasi non si risolve il problema, con i teologi più bravi si fanno solo saggi teologici, più o meno plausibili. Il papa ha scelto un’altra strada. Ho avuto la possibilità di incontrare più volte papa Francesco in questi ultimi 4 anni. Lo dico perché la cosa è avvenuta con grande semplicità, per una serie di circostanze fortunate. È vero, all’inizio non voleva fare l’enciclica, mostrava riserve; poi si è espresso in questi termini: ci ho pensato, ma mi manca un’ispirazione, una visione per ricomporre tutto; quando tutto questo sarà chiaro, noi faremo l’enciclica. Non era stato un no: era stata l’indicazione di un percorso che voleva fare non da solo. Qui la novità di un papa che si avvicina all’enciclica, con grande delicatezza e rispetto per le Chiese, per i cristiani, per i poveri. Questo cambia radicalmente la prospettiva. Chi deve scrivere l’enciclica non sono i più professori di università, ma sono i cristiani, i discepoli, coloro che vivono nella loro vita l’appello della pace e della riconciliazione.

 

Una tua riflessione sulle parole chiave di questa enciclica…

Se pensiamo alle parole, ci accorgeremo che le parole forti sono davvero forti. Perdono: chi usava la parola perdono? Nessuno. Riconciliazione: addirittura il papa ci ritorna due, tre volte. La riconciliazione viene usata − secondo il papa − non in modo corretto, ma per depotenziare il linguaggio della pace. Su questo non si scherza. È una novità di linguaggio. Riconciliazione, parola difficilissima, dal greco katallaghè, che significa lo scambio che avveniva all’ingresso delle città, al mercato degli schiavi. Quindi una concezione e un linguaggio apparentemente politico, totalmente spirituale. Eppure Gesù è colui che consegna la sua vita al mercato degli schiavi, scende in basso, genera questa nuova teologia della misericordia che ha al suo centro lo scambio di ogni giorno. La verità: è Gesù che ha detto: “Io sono la Via, la Verità e la Vita”. Le vittime: ecco i feriti, i curvati, i privati, i più esposti, i disabili come rivelazione e non solo un umanitarismo compassionevole, gli indemoniati, le vedove, i lebbrosi, i ciechi, i sordi. Ecco il Dio dei poveri, la fraternità che rivela il mistero delle persone. Ecco l’abbattimento delle barriere. Ecco un programma per superare le barriere.

 

C’è un dibattito da sempre sulla guerra giusta, sulle giustificazioni etiche che si sono date alla guerra; alcuni hanno scritto che con questa enciclica il papa chiude una volta per tutte il discorso sulla guerra giusta. Qual è il tuo pensiero?

Il mio pensiero è che nell’enciclica risuona in modo netto, assoluto, un’affermazione che va oltre: la guerra non può essere ammissibile. La guerra giusta diventa frutto di un tatticismo, di una teoria, di una rete, ma non è frutto del Vangelo. Tanto è vero che questa parte conclusiva è un’affermazione senza sconti. Anche perché i soggetti diventano nuovi. Non c’è più come soggetto il teologo, il filosofo, il soggetto ecclesiale o ecclesiastico, ma c’è la forza dell’ispirazione evangelica, c’è la riconciliazione, c’è il perdono. Ricordo che quando nel 2005 diventai assessore regionale “alla cooperazione internazionale, perdono e riconciliazione tra i popoli”, il titolo dell’assessorato (una vera e propria provocazione) nasceva da questa scelta. Ad alcuni sembrò ridicolo questo linguaggio religioso/ecclesiale rispetto al linguaggio politico. Ma qui è un salto importante: la scelta che ha fatto il papa è proprio di ripensare il linguaggio. Questo non può essere perso: il linguaggio della radicalità evangelica oggettivamente distante dalla cultura della guerra, a fondamento della cultura della pace.

 

Papa Francesco cita come fonte della sua predicazione il Vangelo di Matteo e cita documenti di Conferenze episcopali nel mondo: una tua riflessione.

Gesù consegna a Matteo e ai discepoli la Pasqua, che diventa fraternità. Allora la fraternità è donata dal Signore: Gesù è la fraternità e ne dona la misura. Nell’espressione “andate in Galilea” c’è la consegna di essere discepoli e testimoni. Solo da una conversione cristologica si costruisce la pace. È qui una nuova esperienza teologale carismatica attorno al tema della pace. Non basta più il tema tradizionale: nasce una cultura della pace e della riconciliazione. È per questo che senza paura, ma anzi con grande forza, papa Francesco utilizza oltre 11 documenti di Conferenze episcopali, in una geografia di Paesi in cui più forte è la domanda di pace: Palestina, Corea, Repubblica democratica del Congo. Non è un’operazione per trovare una sponda, un sostegno. C’è una coerenza di pensiero: ciò che annunciamo il mattino di Pasqua lo annunciamo ogni giorno nella storia. Quindi un passaggio importante: finita la teologia  e i principi, si afferma un nuovo pensiero cristiano, dalle chiese ai testimoni. Oggi viviamo nella gioia di avere non solo una visione, ma anche una prospettiva. Ricominciare allora è anche trovare un linguaggio nuovo e questo è possibile perché i veri protagonisti sono i poveri, i disabili, le vittime. Ecco la fraternità al cuore stesso del Vangelo. Gesù è il volto storico della “forma sancti evangelii”. Gesù viene nei poveri e in tutti i fratelli. Si rivela nel lebbroso, nell’uomo lungo la strada.

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