I film del weekend

Tra le numerose uscite segnaliamo in particolare "L’uomo che disegnò Dio" di e con Franco Nero, Kevin Spacey, Stefania Rocca. Una storia vera di notevole attualità
L'uomo che disegnò Dio
L'attore Kevin Spacey, in alto al centro, posa con il cast del film "L'uomo che disegno' Dio", all'arrivo per la proiezione al cinema Adriano, a Roma, mercoledì 18 gennaio 2023. (AP Photo/Andrew Medichini)

Ci sono film che non alzano il tono, scorrono grazie ad una sceneggiatura rapida, per dissolvenze come capitoli di una storia breve, hanno interpreti che brillano per asciuttezza e raccontano frammenti di vita che fanno pensare e prendono. Come  “L’uomo che disegnò Dio” di e con Franco Nero, Kevin Spacey, Stefania Rocca.

Emanuele vive nella Torino ordinata e regolare di piazze e palazzi lungo il Po, e non certo in un quartiere “alto”. È un ebreo anziano e cieco che però ha un talento unico: sa disegnare le persone che incontra, gli fa dei ritratti somiglianti nel corpo e nell’anima. Vive solo, pochissimi amici, un giovane e una poliziotta. È brusco, diretto, “vede con l’anima” quello che gli altri sono, insegna disegno in una scuola. Malvolentieri accetta di ospitare per qualche giorno una donna, Maria, la sua ragazzina Iaia, fuggite dall’Africa, dove il marito è morto nella guerra civile. I giorni passano, le due donne si trovano bene con quest’uomo bisognoso di affetto anche se ruvido, specie la ragazzina di cui il vecchio diventa gradualmente un maestro di vita. Lo invitano ad un talent show televisivo e diventa una star. Ma una accusa infamante di pedofilia nei confronti della ragazzina lo conduce in carcere. Uscirà perché innocente ma sarà cambiato dentro. Farà una scoperta bellissima e luminosa.

Il film non è moralista, neppure compassionevole, ma virile, robusto. Perché Emanuele è un uomo vero che ha conosciuto il dolore e conosce quello degli altri disagiati come lui. Ma è il dolore che gli apre porte nuove. Un piccolo film che ha un respiro grande, parole scarne ma forti come pietre, e una natura autunnale, malinconica, di una Torino avvolta di luci pallide e di un sottobosco umano smarrito. Da vedere.

 

Benedetta
Daphne Patakia, da sinistra, il regista Paul Verhoeven, Virginie Efira, Clotilde Courau e David Birke posano per i fotografi alla prima del film “Benedetta” al 74esimo festival internazionale del cinema, Cannes, venerdì 9 luglio 2021. (Foto AP/Vadim Ghirda)

Paul Verhoeven è un autore che fa della carne e dello spirito spesso il soggetto dei suoi film. Ora è Benedetta – presentato a Cannes –, con Virginie Efira, Daphne Patakia e Charlotte Rampling, storia di erotismo mistico in un convento toscano a Pescia nel Seicento. Benedetta fin da piccola è visionaria, poi nel convento incontra una giovane suora con la quale il rapporto non è affatto puro, viene processata, condannata, rischia il rogo, mentre arriva la peste.

Il racconto mescola la realtà con l’esplorazione, consueta nel celebre regista, degli istinti e delle pazzie religiose ambigue, e lo fa con toni melodrammatici insistenti, che, al di là dei costumi e delle ambientazioni interessanti, danno al lavoro una atmosfera di thriller torbido, confezionato come un prodotto di lusso aderente a tematiche di attualità. Ma alla fine poco convincente, con un sapore di déjà vu.

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